Corriere della Sera, 29 agosto 2018
L’eroe McCain e il «Vietnam personale» del presidente
«L’Ernest Hemingway dei 140 caratteri» (cioè di Twitter), come gigioneggia Donald Trump vantandosi della sua alluvionale presenza sul web, non poteva concludere peggio la sua «carriera» di nemico politico di John McCain, sconfitto da un tumore al cervello dopo una lunga e coraggiosa resistenza. L’onore delle armi è infatti da sempre un patrimonio morale di cui è geloso custode ogni militare che dia il giusto peso al decoro. Lo concessero i romani agli iberi, i fiorentini ai senesi, gli inglesi agli italiani a El Alamein e ancora il comandante americano della Missouri, a Setsuo Ishino, un giovanissimo aviatore giapponese che a guerra persa si era schiantato col suo aereo contro la corazzata... Donald Trump no. Anzi, si sarebbe preso la briga di bloccare il comunicato della Casa Bianca pretendendo che al suo avversario morto fosse tolta la qualifica di «eroe». L’aveva già detto: «McCain non è un eroe. Si può chiamare eroe chi si è fatto catturare? A me piacciono gli altri, quelli che non si fecero prendere». Pilota imbarcato sulla portaerei Forrestal, il 26 ottobre 1967, alla sua ventitreesima missione, McCain fu abbattuto e il paracadute non riuscì a contenere i danni. Finito con una gamba e le braccia fratturate in mezzo a una folla di vietnamiti furenti, fu massacrato di botte, rischiò il linciaggio e finì per cinque anni in una galera di Hanoi. Torturato. Affamato. In isolamento. «Quando i vietnamiti seppero che era figlio e nipote di ammiragli e gli offrirono la possibilità di tornare a casa li mandò a quel paese: “Sarei libero ma avrei infangato la Marina e sarei giudicato un figlio di papà”», ricostruì Antonio Carlucci su l’Espresso. Quando poté rientrare, la foto con Nixon lo ritrae ancora sulle stampelle. In divisa. Ma non più motivato da spiriti guerreschi. Come ogni uomo di guerra aveva imparato a non invocarla. Donald Trump non poteva capirlo. Basti riascoltare su youtube l’intervista (registrata) data al conduttore radiofonico Howard Stern. «Ho avuto anch’io il mio Vietnam personale», disse ridendo di come aveva evitato cinque volte il richiamo alle armi, l’ultima con un certificato medico da cui, scrisse il NYT, «emergeva la presenza nei suoi piedi di speroni calcaneari, ovvero escrescenze ossee che possono rendere dolorose le lunghe camminate». E spiegò che con la vita che faceva allora vedeva «ovunque top model che facevano sesso, top model famose, su delle sedie in mezzo alla stanza. Un giorno v’erano sette di loro e ognuna veniva (beep!) da un ragazzo diverso» e insomma, con l’Aids e le malattie che giravano, «se eri giovane allora la (beep!) di ogni donna poteva essere una mina antiuomo». Eccolo, il «Commander-in-Chief»...