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 2018  agosto 29 Mercoledì calendario

Vivere di scarti a Hong kong

ualche anno fa il libro di un noto giornalista americano si lanciava in una fortunata ma errata previsione: «Il mondo è piatto». Non dal punto di vista geografico, evidentemente, ma da quello socio-culturale. Una comunicazione sempre più veloce veicolata da Internet, insieme al fenomeno della globalizzazione, stava rendendo il mondo tutto uguale, una sorta di monocromatismo culturale alla Facebook in cui le mode non hanno più bisogno di 12 mesi per varcare l’Oceano. Ma 12 ore.
Au Fung-lan ha 67 anni e da venti consuma le sue giornate tra i cartoni raccolti nelle strade di una delle città più ricche e costose al mondo, Hong Kong. Sembra uscire dal cinema di Wong Kar-wai: la sua pelle che sembra come il cartone di cui (soprav)vive ci ricorda che il mondo piatto è un’illusione, figlia di una presbiopia occidentale. C’è una Hong Kong fatta di dollari. E una nascosta dai rifiuti. Ed è così ovunque. Lo sappiamo, ma vogliamo dimenticarlo.
Il mondo non è come ce lo riporta Instagram e nemmeno come si presenta a un turismo sempre più diffuso e uniformato sui gusti di chi arriva più che su quelli di chi ci vive. Il contrappasso a Hong Kong è ancora più vivido: simbolo della diversità culturale rispetto al resto della Cina – non solo per gli anni di protettorato inglese ma anche per una diffusa cultura liberale – non fu scelta a caso da Edward Snowden come base per denunciare lo spionaggio industrializzato della Cia con la complicità delle società tecnologiche americane. Snowden sapeva che Hong Kong, come l’Islanda, avrebbe reso complicato il suo arresto. La città nota per Bruce Lee, come ricorda anche una sua statua sulla Avenue of Stars, è stata la salvezza online negli ultimi otto anni per i cinesi anglofoni. In tutto questo periodo in cui Google non era attivo, digitando google.ch si veniva reindirizzati su google.hk. Un particolare che, per inciso, svela come la volontà del motore di ricerca di rientrare in Cina con una versione censurata ha solo finalità commerciali, non culturali. D’altra parte a soli 30 chilometri dalla verticalità vertiginosa della città si incontra la sua controparte in Terra, Shenzhen. Non più centro del capitalismo finanziario come Hong Kong ma fabbrica del mondo, l’altra faccia della globalizzazione. Qui, grazie alle regole speciali introdotte nel 1984 da Deng Xiaoping, vengono ancora oggi assemblati tutti gli oggetti del desiderio occidentale, quella tecnologia tascabile che ha cambiato il mondo ma che proprio qui costa l’equivalente dello stipendio di diversi mesi per un operaio. Qualche anno fa queste fabbriche dove vengono montati i nostri smartphone erano diventate le «fabbriche dei suicidi»: stressati dalle condizioni insostenibili decine di giovani cinesi avevano preferito uccidersi.
Il mondo non è piatto: è solo troppo complicato per essere compreso da uno schermo.