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 2018  agosto 28 Martedì calendario

Italexit, le nove vie scelte dal governo per mettere in crisi l’Europa

Per un incendio c’è bisogno sempre di un innesco, una sigaretta accesa gettata fra le sterpaglie, una scintilla arrivata da chissà. Ma poi ci devono essere le condizioni propizie: il bosco secco, il caldo asfissiante, il vento indomabile. E qui ce ne sono in abbondanza.
Chi sottolinea le differenze fra Lega e Movimento 5 Stelle (molte, sulla carta) non vede il fattore comune solidissimo che le salda. È l’avversione ideologica, radicale e senza possibilità di ripensamenti, per l’Europa. Un formidabile cemento per il consenso di un Paese arrabbiato alla ricerca di capri espiatori sui quali scaricare le responsabilità e scaricarsi la coscienza. E l’Europa, con le sue colpe vere o presunte, è perfetta. Si è visto nelle ore successive al crollo del ponte di Genova, quando il ministro dell’Interno Matteo Salvini si è affrettato a puntare il dito verso Bruxelles: «È colpa dei vincoli europei». Quelli che ci impedirebbero di investire nelle infrastrutture. Piccolo particolare, i soldi ci sono ma non vengono spesi: l’Ance dice che 21 miliardi disponibili sono fermi perché le opere incontrano ostacoli di ogni genere. Nel caso del ponte, poi, quegli investimenti sarebbero comunque toccati al concessionario privato. Lo Stato, e a maggior ragione l’Europa, non c’entrano un fico secco. Ma poco importa: l’essenziale non è che sia vero, ma verosimile. O comunque, credibile.
Si dirà che le avvisaglie c’erano tutte. L’ostinazione nel proporre il nome del non fervente europeista Paolo Savona per il ministero dell’Economia. Ma anche il contratto di governo, con la solenne promessa di ridiscutere i trattati europei, l’accusa alle regole sulle banche (il famigerato bail-in che coinvolgerebbe i correntisti nei fallimenti degli istituti di credito) e la difesa «della sovranità alimentare dell’Italia» contro i governi che avevano «preferito lasciare il campo a interessi europei opposti alle esigenze nazionali». Una frase, quest’ultima, rivelatrice dell’approccio alla questione dell’Ue, ben oltre il merito della faccenda. Perché contrapporre gli «interessi europei» alle «esigenze nazionali» significa considerare l’Italia come fosse altro rispetto al resto dell’Unione. Così si spiega il salto di qualità di questi giorni con la minaccia di Di Maio di non pagare i contributi all’Ue: «Con 20 miliardi altro che quota 100 per superare la legge Fornero, faccio quota 90, 80…». E Salvini: «Se in Europa fanno finta di non capire, vedremo di pagare l’Europa un po’ di meno». Storia che riporta alla mente il rifiuto nel 2014 del governo inglese di David Cameron di pagare tutto il dovuto. La Brexit è partita così.
Una minaccia rispedita al mittente da Bruxelles con sconcerto, perché senza precedenti per il governo di uno dei Paesi fondatori dell’Unione. Anche se non proprio inedita per gli attuali governanti. Il 16 febbraio 2018 Di Maio proclamava: «O ci consentiranno di sforare il 3 per cento oppure daremo all’Ue qualche miliardo in meno dei 20 che diamo ogni anno». Quel maledetto 3 per cento, il vincolo di bilancio che per noi il prossimo anno dovrebbe addirittura ridursi allo 0,9, è l’arma più pericolosa in mano al nemico: metterebbe in crisi tutte le promesse, dal colpo di spugna sulla Fornero al reddito di cittadinanza. Dunque va a ogni costo resa inoffensiva.
Salvini non ci pensa un attimo a dire che «il numerino 3 per cento, se dovremo ignorarlo per fare il bene della nostra gente, lo faremo senza preoccupazioni». Idem per «la direttiva banche che è contro la costituzione italiana…». Dunque, guerra al 3 per cento, guerra alle banche e guerra alla Bolkestein, la regola che impone gare per le concessioni pubbliche. «Farebbe saltare 300 mila posti di lavoro», sbraita il vicepremier Salvini. «Una di quelle regole europee che stanno massacrando le nostre imprese», sbraita anche il vicepremier Di Maio.
Massacro per massacro, guerra anche alla Banca centrale europea il cui presidente Mario Draghi, ringhia il ministro dell’Interno «è complice della Ue che sta massacrando gli italiani».Oltre a essere, secondo Di Maio, un tifoso del famigerato Jobs Act renziano insieme ad Angela Merkel. Di conseguenza, guerra all’euro. Che non c’è nel contratto di governo. Ma per Beppe Grillo «è un’allucinazione» e Salvini ha già promesso pubblicamente: «Se la Lega andrà al governo, noi usciamo». Mentalmente, si considerano già fuori. Al di là dello steccato.Quindi la scena surreale a cui si sta assistendo è quella di un governo che si comporta come se il Paese che governa non appartenesse all’Unione. Con qualche timido residuo di realismo, costituito dal ministro dell’Economia. Egli frena sulle pensioni, che Salvini e Di Maio vogliono smontare contro la ferma resistenza di Bruxelles, secondo cui le regole dell’odiata legge Fornero andrebbero semmai rese ancora più rigide.Frena sulla spallata al deficit pubblico, frena sulla flat tax, frena sul reddito di cittadinanza.
Così i suoi colleghi sono sempre più insofferenti: qualche onorevole grillino non nega che festeggerebbe se il ministro così amico del pasdaran di Forza Italia Renato Brunetta togliesse il disturbo. E il premier Conte? Non pervenuto, se non nelle retrovie dell’offensiva: riminacciando il veto italiano al bilancio europeo già minacciato dai suoi due capi.
Mentre gli altri sparano senza sosta. Il ministro dell’Agricoltura Centinaio demolisce il Ceta, l’ accordo commerciale con il Canada. Il suo collega delle Infrastrutture Toninelli annuncia che ci riprenderemo l’Alitalia, e s’intravede la nazionalizzazione. Con Grillo che rincara: «Nazionalizziamo anche le telecomunicazioni». Che però non si può fare. Nell’Ue aiuti di Stato non sono ammessi. A meno di non essere fuori, appunto.
Quanto ai contributi che minacciamo di non versare più ( e che al netto di quello che ci torna indietro non sono 20 miliardi, ma a quanto pare 3) sarebbe il caso di pensare anche ai denari dei fondi europei che non riusciamo a spendere per incapacità o, peggio ancora, inerzia della nostra politica. A metà del piano 2014- 2020 avevamo utilizzato appena l’ 1,2% dei 42,7 miliardi a noi spettanti. Per non parlare delle multe, salatissime, pagate sempre per ragioni politiche. I prestigiatori delle quote latte spalleggiati dalla Lega, che ne aveva candidato il capo in Senato e perfino a Strasburgo ( a Strasburgo!), ci sono costati 4 miliardi e mezzo. E ogni giorno che passa, ha denunciato il deputato radicale Riccardo Magi, paghiamo ( davvero, ci vengono detratti dai contributi a noi spettanti) 120 mila euro di sanzioni perché ancora non siamo stati in grado di fare un piano decente per il disastro dei rifiuti della Campania che per anni abbiamo spedito in tutto il continente. Uno scherzetto, finora, da almeno 153 milioni. Anche questo colpa dell’Europa?