Barbera, perché questa mostra fotografica?
«Anziché fare grandi celebrazioni, pranzi o cene ci siamo detti perché non raccontare quello che non solo è un grande evento festivaliero ma un appuntamento con la storia del nostro paese e internazionale?».
Cosa ha riscoperto?
«Nessuno sa quanto sia stato straordinario il primo decennio della Mostra, nata nel ’32. Si pensa che fosse una mostra fascista perché venivano i gerarchi in divisa, ma in realtà la Biennale, nonostante il Conte Volpi Misurata fosse uomo di regime, ha sempre cercato di mantenere una certa indipendenza. Poi dal ’38 Goebbels e Mussolini hanno imposto due premi che hanno scatenato la reazione di francesi, inglesi e americani e il boicottaggio. Venezia negli anni 50 e 60 era più importante di Cannes, Berlino, Locarno».
E poi c’è stato il ’68.
«Un’altra cesura, dalla quale Venezia a fatica si è risollevata, perché la contestazione qui è durata dieci anni mentre altrove si è esaurita in poche settimane. Poi c’è stata la reinvenzione con Carlo Lizzani e Renzo Ungari. Venezia è il festival che negli ultimi anni si è trasformato in modo più radicale dei concorrenti».
L’"Hollywood Reporter" la accusa di "maschilismo tossico" perché c’è solo una regista in concorso e poche donne in generale. Lei ha twittato di non sapere se ridere o piangere.
«Le polemiche c’erano già state a al festival di Cannes, sotto attacco per settimane perché c’erano pochi film di donne in concorso ed erano tre».
Dopo la Montée des Marches delle registe a Cannes il film di Eva Husson "Les filles du soleil", è sembrato debole e deludente. Ci si è chiesti se giovasse alla causa.
«Credo sia una riflessione condivisa. Ed è il motivo per cui io ostinatamente ripeto che i film si scelgono per la qualità intrinseca e non perché sono fatti da donne.
Non possiamo fare l’errore di ragionare in termini di condiscendenza nei confronti del lavoro femminile: ci sono grandissime registe che vanno valorizzate in quanto tali e non perché donne, altrimenti diventa offensivo, umiliante, e in qualche caso, come quello che lei ha citato, controproducente».
A Cannes c’erano molti film brutti di maschi.
«Questa è la dimostrazione che i film brutti, come quelli belli, li fanno tutti. Il nostro lavoro è cercare di scegliere i film migliori indipendentemente dalla casa di produzione, dal genere dei registi, dal cast che hanno. Nell’arte le quote rosa non hanno senso, come invece è giusto ad esempio nella politica. Ed è anche vero che c’è un problema di accesso nell’industria del cinema, che è maschilista».
Quante donne alla Biennale College?
«Quest’anno due registi, sui tre scelti, sono donne.
È la dimostrazione che non solo non c’è pregiudizio: quando c’è una qualità intrinseca al progetto siamo i primi a riconoscerlo».
E quanto è bello "The Nightingale", il film dell’unica donna in concorso Jennifer Kent?
«Bello e forte. Ambientato all’inizio del 1800, ma con un sottotesto rivolto al presente.
Un film radicale, violento nella denuncia dell’oppressione subita dalle donne».
"Hollywood Reporter" ha ripreso l’espressione "maschilismo tossico", coniata dal "New York Times" qualche mese fa a proposito delle polemiche sollevate dal MeToo.
«È un termine disturbante perché come tutte le definizioni radicali e tranchant, non fa distinzioni.
La cosa peggiore dell’articolo è il pregiudizio culturale anti italiano, che fa di ogni erba un fascio, e che è inaccettabile da parte di un giornalista che fa seriamente il suo mestiere. L’articolo francamente mi è sembrato sostanzialmente in mala fede e al limite della diffamazione: nel momento mi cui mi si accusa di scegliere i film sulla base del nome del regista e del suo prestigio invece che della qualità, si mette in discussione il fondamento stesso del mio lavoro.
Cosa che non posso accettare».
Bella l’idea del madrino maschio. Ma era una delle poche occasioni che le donne del cinema avevano per dire cose intelligenti.
«No, ma l’anno prossimo probabilmente sceglieremo una donna».
Cambiamo polemica: c’è un conflitto di interessi tra Guillermo Del Toro presidente di giuria e l’amico Alfonso Cuarón in concorso?
«Ci abbiamo pensato, però poi ci siamo detti: non possiamo non aver fiducia nelle persone che conosciamo. Ci siamo detti che valeva la pena di farlo perché Roma merita assolutamente il concorso».