Corriere della Sera, 28 agosto 2018
«Un posto al sole», appassionante giallo su amore e ingiustizia
Una tragedia americana fu il libro più popolare di Theodore Dreiser, grande scrittore americano che ha raccontato l’amorale scalata del capitalismo (magnifico Il titano), ma dall’altro lato anche i problemi del «quarto stato», i poveracci di east e west side story, come Nostra sorella Carrie (al cinema Gli occhi che non sorrisero). Dalla Tragedia nacque invece nel 1951, dopo un film di Von Sternberg, l’ottimo Un posto al sole, del dimenticato George Stevens, regista di varia umanità e di varie diseguaglianze, dal cult Cavaliere della valle solitaria al petrolifero James Dean di Il Gigante dopo essersi fatto le ossa nella commedia con Katharine Hepburn e Cary Grant.
Anche A place in the sun ha un cast formidabile: c’è l’ambizioso Montgomery Clift (che replica benissimo il ruolo di arrampicatore dell’Ereditiera di Henry James) che corteggia una giovane, bella ereditiera upper class, una Elizabeth Taylor finalmente dedita ai giovanotti ma reduce da storie affettive col cane Lassie e i cavalli. L’ostacolo è l’operaia (quasi brechtiana la divisione del codice morale) Shelley Winters, attrice gigantesca, che attende un bimbo da Clift.
Urge eliminarla. Come quando perché? Ci fermiamo per non rovinare lo sviluppo giallo processuale inedito del film di Stevens che tiene alto il bandolo psicologico della vicenda, anticipando penombre freudiane. Un posto al sole fu un meritato successo di pubblico, appassionato di lacrime d’amore e ingiustizie: vinse sei Oscar per regia (Stevens battè Huston, Kazan, Minnelli e Wyler!), sceneggiatura, fotografia, musica, montaggio e costumi (la famosa Edith Head) mancando però le statuette degli attori «nominati». Clift venne superato da Bogart (Regina d’Africa) e la Winters, moglie allora di Gassmann, fu battuta dall’insuperabile Leigh-Blanche del Tram che si chiama desiderio. Che tempi!
(Un posto al sole, di George Stevens. Sky Cinema Classic, ore 23)