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 2018  agosto 28 Martedì calendario

Un’interessante biografia di Scalfaro

È una storia d’Italia osservata da un’angolatura insolita quella raccontata dal libro di Guido Dell’Aquila Scalfaro democristiano anomalo (sottotitolo: Uno schiaffo ai pregiudizi) che la Passigli Editori si accinge a dare alle stampe in occasione dei cento anni dalla nascita dell’ex presidente della Repubblica (9 settembre 1918). La vita di Scalfaro è assai particolare: ex magistrato, parlamentare democristiano appartenente alla parte più conservatrice del partito cattolico (piacque ad Alcide De Gasperi), negli anni Sessanta si oppose all’apertura ai socialisti, fu poi a lungo ministro dell’Interno, conquistò la fiducia di Bettino Craxi fino a farsi eleggere, nel 1992, presidente della Repubblica grazie anche all’approvazione del leader socialista; ma da quando entrò al Quirinale si avvicinò sempre più agli ex comunisti e, negli anni Novanta, fu accusato da Silvio Berlusconi di aver tenuto un comportamento «non imparziale» nel corso della crisi del 1995 e ancor più nel periodo successivo.
La ricostruzione di Dell’Aquila è impeccabile. Valga per tutto ciò che scrive sul giorno più drammatico (quanto meno sotto il profilo politico) della vita di Scalfaro: il 3 novembre 1993. Scalfaro è al Quirinale da meno di un anno e mezzo. Ci troviamo in piena Tangentopoli, molti parlamentari e ben sei ministri sono stati costretti alle dimissioni a seguito di iniziative della magistratura che si occupa di reati di corruzione. La mafia ha insanguinato l’Italia sia nell’estate del 1992 che in quella del 1993 e, secondo una recente sentenza emessa dalla Corte d’assise di Palermo, proprio nel periodo in questione sarebbe in corso una trattativa segreta tra Cosa nostra e lo Stato al fine di stipulare una tregua vantaggiosa per entrambi (ma di questo il libro non parla, dal momento che, ad oggi, la figura di Scalfaro è rimasta sullo sfondo di questi presunti patteggiamenti).
Nel pomeriggio di quel 3 novembre – ricostruisce Dell’Aquila – Giorgio Frasca Polara, addetto stampa della ex presidente della Camera Nilde Iotti, conversando con alcuni giornalisti nel Transatlantico di Montecitorio, si lascia sfuggire che Scalfaro ha poco prima telefonato alla Iotti per annunciarle che la sera di quello stesso giorno si sarebbe rivolto al Paese a reti unificate. Strana confidenza da parte di un giornalista, Frasca Polara, tra i più riservati nella storia della carta stampata nell’Italia repubblicana. Probabilmente era stata la stessa Iotti a dirgli di mettere in quel modo l’intero mondo politico (e non solo) nelle condizioni di reagire anticipatamente a quella singolare iniziativa del Quirinale. Che cosa stava succedendo?
All’inizio di quell’anno, nel gennaio 1993, racconta Dell’Aquila, un pubblico ministero di Roma, Leonardo Frisiani, aveva iniziato ad indagare sulla bancarotta di un’agenzia di viaggi chiamata Miura Travel, di proprietà del generale in pensione Edoardo Bonamici. Nella rete dell’indagine erano caduti due dirigenti dei servizi segreti (Sisde), Michele Finocchi e Gerardo Di Pasquale, a disposizione dei quali erano stati trovati depositi bancari per un valore di quattordici miliardi, una cifra all’epoca sbalorditiva. L’indagine va avanti, un altro dirigente del Sisde, Maurizio Broccoletti, viene arrestato a Montecarlo mentre si aggira con barba e baffi finti. Poi tocca all’ex cassiere dei servizi Antonio Galati e all’ex direttore Riccardo Malpica, nonché alle loro segretarie. Cosa sono tutti quei soldi a loro disposizione? A che servono? Malpica a questo punto fa esplodere la bomba: quei soldi costituiscono un tesoretto a disposizione dei ministri dell’Interno, che servirà loro per risolvere casi di emergenza. Anche Scalfaro, che è stato al Viminale per quattro anni consecutivi, avrebbe beneficiato di una «dazione» di 100 milioni al mese per quegli affari ultrariservati.
All’epoca la notizia è considerata assai scabrosa. Nel «clima burrascoso di risentimento popolare verso la corruzione politica», scrive Dell’Aquila, «un politico, fosse anche il capo dello Stato, additato come percettore di denaro è destinato a essere seppellito da uno sciame sismico di intransigente giustizialismo». Così alle 22 e 30 di quel 3 novembre Scalfaro passa al contrattacco con modalità che non erano state concesse a nessun altro esponente politico in quella stagione infuocata. Fa interrompere la trasmissione televisiva della partita di Coppa Uefa fra il Cagliari e la squadra turca del Trabzonspor e, a reti unificate, pronuncia un discorso breve ma molto incisivo: «Prima si è tentato con le bombe», afferma. «Ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali… A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci e di dare l’allarme». «Non ci sto», insiste Scalfaro, «non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento, ma per tutelare con tutti gli organi dello Stato l’istituto costituzionale della Presidenza della Repubblica».

Interessante notare come il presidente associ in un unico disegno criminoso le bombe dell’estate 1993 riconducibili alla mafia e le denunce degli uomini del Sisde a proposito di quei cento milioni al mese della suddetta «dazione». Scalfaro non nega di aver ricevuto quei soldi. Dell’Aquila del resto dimostra come, a norma della legge 801 del 1977, il ministro dell’Interno, in quanto capo del Sisde, è «destinatario naturale di somme per uso istituzionale». Quindi, secondo l’autore di questo libro, «l’uso di fondi riservati consegnati materialmente dal Sisde al ministro dell’Interno era legittimo, logico e rispondente a un’organizzazione razionale del sistema di sicurezza». Tornerà su questo particolare lo stesso Scalfaro parlando nella biblioteca del santuario mariano di Oropa, in provincia di Biella, il 29 maggio 1994, sei mesi dopo il discorso del «Non ci sto!» («forse con un eccessivo ritardo sugli accadimenti», si lascia sfuggire Dell’Aquila). «Sfido chiunque a dimostrare che abbia speso una lira fuori dai fini istituzionali», dirà il presidente, ammettendo implicitamente che quei cento milioni li aveva ricevuti.
In un libro intervista con Dimitri Buffa (Sisde, parla Malpica, pubblicato da Editoriale Nord) – di cui Dell’Aquila riporta i passi fondamentali – l’ex capo dei servizi segreti disse nel 1996 che lui mai e poi mai avrebbe parlato di sua iniziativa di «quei maledetti cento milioni al mese». Né «per approntare una qualsivoglia linea difensiva», né «per altri biechi motivi». Era stato Broccoletti, sosteneva Malpica, ad aver «violato un segreto di Stato», qualcun altro poi gli aveva «fatto da grancassa» e lui, si lamentava, avrebbe «dovuto restare con il cerino in mano?». «Dovevo marcire in galera mentre gli altri facevano i giochi politici con le dichiarazioni di quei mascalzoni che rovesciavano sui tavoli dei magistrati le carte sottratte o fotocopiate abusivamente?». «La verità», proseguiva Malpica, «è che il signor Scalfaro, quando era ministro dell’Interno, quei soldi li ha presi… Io poi non so cosa ci abbia fatto, ma conoscendo l’onestà proverbiale del presidente, ritengo che abbia ragione a sfidare chiunque a provare un qualsivoglia uso illecito». Dopodiché lo stesso Malpica, non senza malizia, faceva notare un dettaglio non irrilevante ai fini della ricostruzione di questa vicenda: Amintore Fanfani, all’epoca in cui, fra il 1987 e il 1988, fu ministro dell’Interno nel governo presieduto da Giovanni Goria, si astenne dall’attingere alla provvista di quei cento milioni al mese messi a disposizione dei servizi.
E i magistrati? Il procuratore capo di Roma Vittorio Mele e il suo aggiunto Michele Coiro – nonostante il secondo avesse presentato ricorso contro la nomina del primo e i loro rapporti perciò non fossero idilliaci – si schierarono senza esitazione dalla parte di Scalfaro e si impegnarono, come disse Coiro, a «difendere un presidente galantuomo da una banda di malfattori». E diedero luce verde al sostituto Pietro Saviotti, che contestò agli accusatori il reato di attentato agli organi costituzionali previsto dall’articolo 289 del Codice penale. Perché questa contestazione? Per il fatto che, spiega Dell’Aquila, «gli imputati, nel tentativo di alleggerire la propria posizione chiamano in causa il ministro e gli attribuiscono un abuso che invece non ha commesso … Tutto ciò in coincidenza con le bombe di Roma, di Firenze, di Milano che possono far pensare a un ordito clima di terrore».

Qualche anno dopo un altro sostituto procuratore di Roma, Francesco Misiani, nel libro La toga rossa scritto con Carlo Bonini (Marco Tropea editore), accuserà i suoi superiori dell’epoca di aver volto forzare la mano, contestando «un reato impossibile, da guerra civile», come non era stato fatto «neanche durante il terrorismo», riuscendo sì a difendere, in questo modo, le istituzioni, ma salvando nel contempo Scalfaro da un’indagine sull’utilizzo di quella montagna di soldi.
In realtà un’indagine si fece. Il ministro dell’Interno del 1993, Nicola Mancino, istituì una commissione amministrativa d’inchiesta incaricata di verificare le accuse di Broccoletti e Malpica. E chiamò a presiederla l’ex procuratore generale della Corte d’appello di Roma, un magistrato integerrimo che Dell’Aquila definisce «determinato fino alla testardaggine»: Filippo Mancuso. Mancuso, dopo mesi di lavoro, consegnò la sua relazione che si concludeva con queste parole: «Per quanto abbiamo potuto accertare, non sono emersi illeciti nell’uso dei fondi Sisde». Un anno dopo, nel 1995 quando, sotto la supervisione di Scalfaro, verrà istituito il governo cosiddetto del «ribaltone» presieduto da Lamberto Dini, a sorpresa Mancuso verrà chiamato alla guida del ministero della Giustizia. In seguito però l’uomo entrerà in urto con le forze che principalmente sostengono quel gabinetto (Lega e sinistra) dal momento che mostrerà una qualche sensibilità alla richiesta berlusconiana di un’indagine sulle procure che indagavano, appunto, su Silvio Berlusconi. Scalfaro stavolta è critico nei suoi confronti. Per la prima volta nella storia Lega e sinistra presenteranno una mozione di sfiducia individuale e alla fine Mancuso sarà costretto alle dimissioni.

La seduta in cui il guardasigilli deve affrontare i suoi sfidanti si svolge a Palazzo Madama il 19 ottobre 1995. Nel suo discorso di autodifesa, scrive Dell’Aquila, Mancuso «ricorre a una trovata teatrale, a un messaggio trasversale». Salta «platealmente alcune pagine del testo che sta leggendo e che risultano bianche quando l’incartamento viene consegnato alla Presidenza del Senato». Il significato del gesto è evidente: «Potrei dire delle cose che invece qui preferisco non dire». Di che si tratta? Mancuso fa consegnare ai giornalisti il discorso completo nel quale si accusa il presidente della Repubblica di avergli mandato, all’epoca, il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni per chiedergli di negare nella relazione ministeriale che Scalfaro avesse mai utilizzato i fondi del Sisde. Secondo l’accusa di Mancuso, Scalfaro non si sarebbe limitato a difendere la legittimità dell’uso di quei denari, ma avrebbe voluto negare di averli mai toccati. Mancuso però non si rende conto del fatto che con questa denuncia – in ritardo di un anno e mezzo, perdipiù in un momento di sua difficoltà politica – praticamente annulla il valore delle proprie parole. E il Senato non ha difficoltà a schierarsi contro di lui e a votare per le sue dimissioni. Nel 1996 Mancuso si candiderà nelle liste di Forza Italia. Attenderà il 15 maggio del 1999 – quando il presidente lascerà il Quirinale – per presentare un esposto giudiziario (non una denuncia che avrebbe comportato il rischio di una controdenuncia) per valutare l’operato di Scalfaro in quell’ormai lontano 1993. La pratica finirà al Tribunale dei ministri che il 18 luglio del 2001 la archivierà definitivamente.
I biografi di Scalfaro dedicheranno poche righe al discorso del «Non ci sto!». Merito di Dell’Aquila l’averlo adesso riproposto, pur sulla falsariga di una lettura innocentista, senza però omettere particolari che lasciano aperto qualche dubbio residuo.