Corriere della Sera, 14 agosto 2018
Indagini al ristorante, le telecamere segrete in cucina
Il cibo in televisione è ormai diventato qualcosa di più complesso di un semplice tema: si è trasformato in una sorta di «genere monstrum», in un pretesto narrativo intorno a cui costruire racconti di taglio molto diverso. Si va dalla classica competizione ai fornelli, tra cuochi o ristoratori (vedi «Masterchef» o «Quattro ristoranti»), al puro tutorial (qualcosa di simile alla «Prova del cuoco»), fino al miracolo della trasformazione («Cucine da incubo»).
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, in una tassonomia infinita di sottogeneri e variazioni che riguardano sia i programmi italiani che quelli d’importazione, soprattutto americana. In questa ricchezza di declinazioni si trova addirittura una sfumatura investigativa, con il cibo che diventa l’occasione per un racconto giallo: si tratta di «Spie al ristorante» (titolo originale Usa «Mystery Diners», in onda su Nove e Real Time con diversi appuntamenti giornalieri).
L’idea di partenza è questa: un ristoratore nutre seri dubbi sulla correttezza dei suoi dipendenti. Dubita di camerieri, receptionist, cuochi spesso sospettati delle peggiori nefandezze sul posto di lavoro: invitano i propri amici al locale senza farli pagare, sono scortesi, reagiscono con poca professionalità alle richieste dei clienti, sottraggono cibo e altri averi al ristorante. È qui che interviene l’agenzia di Charles Stiles, un investigatore che riempie di telecamere il locale e invia alcuni complici a monitorare i comportamenti illeciti, con il ristoratore che osserva tutto da monitor e prende poi i provvedimenti del caso, in un meccanismo non lontano da quello di «Boss in incognito».
L’effetto finzione è dietro l’angolo, ma lo si accetta di buon grado (da format come questi non ci si aspetta certo la pura verità). «Spie al ristorante» non poteva che arrivare da un Paese come gli Usa, in cui attraverso le mance è di fatto il cliente che paga lo stipendio ai dipendenti.