Quali altri sapori la legano all’Irpinia?
«Ricordo un anniversario di nozze, in Emilia dove sono cresciuto e dov’erano emigrati molti irpini. Un amico dei miei genitori, Canio, mi disse: “Di cosa hai bisogno ragazzo, per star meglio? Io vorrei tanto un piatto di cannazz’ e cuta cuta”. Tornai all’infanzia. Cuta cuta è il verso per richiamare i pollastri, e indica un sugo di pomodoro insaporito col galletto. Un piatto che m’inorridiva da piccolo: dentro c’erano frammenti di ossa. Giustifica un detto irpino, “ quando si mangia si combatte con la morte”: non ti devi distrarre, non ti devi strafocare».
Che cos’è la salsa, per lei?
«Come ha detto l’amico poeta Alfonso Nannariello, nel profumo del sugo cotto a lungo sul fuoco c’è già la sensazione che qualcuno ti vuole bene. Ti dà l’idea di essere accudito, di trovare casa. Credo che l’incapacità di separarsi dal rito della salsa sia ciò che ci ha reso davvero meridionali».
La salsa condiva le cannazze: che cosa sono?
«La gola in Irpinia si chiama ‘ ncanna. I cannaroni sono il condotto del cibo. Cannaruto, goloso, e ciò che passa per la gola. La cosa più cannaruta sono le cannazze, ziti lunghi da spezzare in tre parti. Ai matrimoni vengono conditi col sugo insaporito dalla vrasciola, un involtino di carne preparato sminuzzando aglio, prezzemolo e odori, e tenuto insieme col filo da cucire. Per farli serve una manualità rara».
Nel 2013 gli ziti furono la “bomboniera” dello Sponz. Quali sono i piatti “sponzati” della tradizione?
«Il baccalà alla ualanegna, termine che viene da gualano, il contadino che vive in campagna. È servito con peperone crusco, aglio e olio. Una ricetta semplice, per l’unico pesce che arrivava nelle terre dell’interno. E poi c’è l’acqua sala: pane duro ravvivato con acqua bollente, condito con uovo sodo e soffritto. Al festival lo proponiamo nella colazione ancestrale. È ri- generante».
Un piatto di recupero, simbolo di una cucina povera.
«Il tesoro dei sapori irpini è il mondo vegetale: accio e patane, zuppa di sedano e patate, ceci, lenticchie, peperoni ripieni con mollica e uva passa, e poi cose quasi selvatiche, come gli asparagi o le cicorie di campo. E ancora, vino cotto o dolci di Natale come il calzone ripieno di castagne. Si diceva dei contadini che cacavano verde, perché la loro alimentazione era basata sulla verdura».
Questi piatti si possono mangiare solo in famiglia?
«Non più, grazie a Mesáli, una rete di ristoranti che recupera la tradizione. Per me è gran festa quando vado alla Ripa, a Rocca San Felice. O nel paese vecchio di Conza, distrutto dal terremoto: lì c’è la trattoria di zia Michelina. Chi vuole la cucina calitrana può scegliere l’Osteria Tre Rose».
L’Irpinia è oggi terra di grandi vini, con tre Docg, Greco di Tufo, Fiano di Avellino e Taurasi.
«La zona del Taurasi sta acquisendo grande dignità: vi si trovano ancora viti prefillossera, come quelle dell’amico Luigi Tecce. Sono molto legato al suo lavoro. Tecce è quello che Angelo Musso era per la confraternita dell’uva nel libro di John Fante: siamo allattati alla sua tetta. Non dimentico, però, il vino di paese, per l’intima connessione che ha col canto. La cumversazione è la forma musicale da cui ho attinto materiale per l’album Le canzoni della cupa. A Calitri, cibo e vino generano sonetti che tramandano episodi, fatti, storie di seduzione e sensualità. Allo Sponz ne recuperiamo la memoria, in una grotta del centro storico».