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 2018  agosto 09 Giovedì calendario

Due carabinieri e di Pomigliano: così Di Maio si scelse la scorta

La si potrebbe parafrasare con un “Dimmi che scorta vuoi e ti dirò chi sei”. Perché, in fondo, cambiano le stagioni politiche, ma la scorta è e resta il banco di prova antropologico, prima ancora che politico, del rapporto degli uomini nuovi con il Potere. È successo così che il primo a inciampare, forse non a caso, sia stato, in questi primi due mesi, Luigi Di Maio, il vicepremier dei Cinque Stelle che voleva l’impeachment del Capo dello Stato e, una volta arrivato nella stanza dei bottoni, ha confuso la sua scorta con i moschettieri del Re.
Di Maio ha ritenuto infatti questione dirimente che degli uomini assegnati dall’Ufficio Centrale Interforze per la sicurezza personale (è la struttura del Dipartimento della Pubblica Sicurezza che coordina le scorte di tutti i soggetti, con incarichi istituzionali o meno, ritenuti a rischio) a protezione della sua incolumità e privacy di ministro della Repubblica e vicepresidente del Consiglio dovessero far parte due carabinieri la cui caratteristica professionale, oltre a quella di essere già stati impiegati in servizi di scorta, è quella di provenire dal collegio elettorale di Pomigliano d’Arco. Il suo collegio. La sua città. Due “compaesani” a chiamata diretta, insomma. Questione che si è rivelata di soluzione meno agevole del previsto. A Di Maio sarebbe infatti toccata una tutela della Polizia e la regola che prevede che i nuclei di scorta siano formati da appartenenti a uno stesso corpo, avrebbe impedito di aggregare i due carabinieri campani di fiducia. La soluzione è stata trovata con un po’ di furbizia. Essendo Di Maio formalmente titolare di due dicasteri (lavoro e sviluppo economico) e facendo capo ai due ministri due scorte diverse (polizia di stato e carabinieri), il vicepremier ha provveduto a farsene assegnare una sola. Con personale dell’Arma, cui appunto aggregare i due angeli custodi da Pomigliano D’Arco. Come da richiesta.
Non è andata molto diversamente con la neo presidente del Senato, la forzista Maria Elisabetta Alberti Casellati. Alla tutela e sicurezza personale della seconda carica dello Stato, provvede da sempre l’Ispettorato generale della Pubblica sicurezza presso il Senato. Duecento poliziotti che, dal 1962, assicurano la sicurezza fisica di Palazzo Madama, del suo Presidente, della sua aula. Ma la Casellati ha chiesto e ottenuto che a scortarla siano i carabinieri. Per ragioni che non sono chiare a chi evidentemente della scelta ha dovuto prendere atto, ma che, in ogni caso e come nel caso di Di Maio, capovolgono il rapporto tra “tutore” e “tutelato”, con il secondo che sceglie il primo, come se il servizio di scorta fosse quello assicurato da un’agenzia privata, dove è il cliente che dispone. E dove il problema, a quanto pare, non è necessariamente l’efficienza o l’economicità del servizio di scorta, ma l’ossessione che a farne parte sia chi è in grado di custodire la “privacy” dello scortato, prima ancora che la sicurezza.
Complicato è stato e continua ad essere il rapporto con la scorta anche del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Assai più navigato di Di Maio e sicuramente più avveduto, a Salvini non è sfuggito che il doppio incarico, istituzionale e politico di leader della Lega, avrebbe presto posto il problema di una scorta istituzionale (tre auto, e 9 uomini su due turni) obbligata a seguirlo nei suoi frenetici spostamenti di ministro in campagna elettorale permanente. Prova ne sia che regolarmente utilizza aerei di linea per coprire lunghe distanze. Resta il fatto che dal 2 giugno, suo primo giorno da ministro, si contano almeno 42 apparizioni pubbliche in altrettanti eventi politici della Lega, da nord a sud. Da Modica, a Terni, a Caravaggio. Che hanno e continuano a impegnare non solo la sua tutela personale ma anche i dispositivi che, regolarmente, ogni questore predispone quando nella sua provincia arriva, quale che sia il motivo, il ministro dell’Interno. In altri tempi, chi era all’opposizione e oggi al Governo avrebbe fatto le bucce al Viminale per chiedere conto dei “soldi dei contribuenti” spesi per “scarrozzare” un ministro da un’iniziativa non istituzionale a un’altra. E magari delle ore di straordinario pagate agli agenti di scorta in attesa che il ministro chiuda una serata in discoteca (a Salvini succede). Del resto, così era accaduto ad Angelino Alfano che da ministro dell’Interno e leader dell’allora Ncd si era abbandonato a un uso assai disinvolto dei mezzi della Polizia per i suoi spostamenti politici e non istituzionali. Ma, appunto, i tempi cambiano e gli “uomini nuovi” si aggiustano.
Qualche volta anche con coerenza. Come il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha chiesto e ottenuto che la sua scorta da Presidente del Consiglio passasse dal Primo al Secondo livello, con una macchina di scorta e tre agenti per turno in meno.