La Stampa, 9 agosto 2018
Van Gogh ai piedi
Prendere un’opera d’arte e infilarci dentro i piedi. Inzaccherarla di fango, sudarci dentro, e alla sera confinarla nella scarpiera in compagnia di altre sneakers. È il destino dei girasoli di Van Gogh e di altri capolavori come Self-Portrait in front of the Easel, custoditi al museo di Amsterdam. Duplicarsi a grande richiesta per finire non sulla solita t-shirt dominata dal sorriso di Mona Lisa – il soggetto artistico più riprodotto a fini commerciali al mondo – ma sulla tomaia di scarpe da ginnastica Van, uno dei brand di streetwear più popolari fra i giovani.
L’accordo fra il Van Gogh Museum e l’azienda statunitense – che i pubblicitari hanno ribattezzato Vans per Van Gogh – è stato firmato qualche giorno fa. E da oggi cliccando sia sul sito dell’azienda di abbigliamento, sia su quello del museo, e pagando dai 70 euro in su, ci si potrà portare a casa le scarpe da ginnastica dedicate al Mandorlo in fiore (opera diventata pure un bucolico zainetto) a Il vaso con girasoli, la fantasia più richiesta insieme con il teschio, amatissimo dalla fazione dark o metallara o ancora – per le ragazze – il Vecchio vigneto con contadina.
Valéry approverebbe
Non è la prima volta che un brand del mondo della moda firma un accordo commerciale con un grande museo. Pochi mesi fa il marchio Doctor Martens – molto amato dal mondo hipster – ha lanciato una linea dedicata al pittore inglese Turner. In quel caso però, gli eredi non l’hanno presa bene: dopo avere accusato l’azienda di oltraggiare la memoria del loro antenato le ha chiesto i danni. Ora, la stessa indignazione sta montando sul caso Vans per Van Gogh. Ai puristi che sostengono «il posto giusto dell’arte è sulle pareti di una pinacoteca», il business manager del Museo di Amsterdam, Adrian Dönszelmann, risponde citando La conquete de l’ubiquité di Paul Valéry pubblicato nel 1931 nella raccolta Pièce sur l’art. In questo testo Valéry si interroga sui mutamenti in atto nella nozione stessa di arte – nelle tecniche artistiche, nella riproduzione e nella trasmissione delle opere – in seguito all’incremento del nostro «potere di azione sulle cose». Ciò consente all’arte di avere una sorta di «ubiquità», ossia di diventare «fonte» o «origine» i cui effetti potrebbero essere avvertiti ovunque. In questo aumentato potere di riprodurre e diffondere le opere, che Valéry vede già compiersi nel caso della musica, risiederebbe la «condizione essenziale della resa estetica più elevata», ossia la possibilità di sganciare la fruizione dell’opera d’arte dal suo hic et nunc nel momento in cui è rappresentata.
Dönszelmann, che è amante della filosofia, ma anche del business, cita Benjamin e il suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ma intanto pregusta il giro d’affari – stando alle domande pervenute al museo – legato all’ultima moda dell’estate, quel «Vestiremo alla Van Gogh» che impazza (condito da polemiche, ma la cosa aumenta la viralità dell’iniziativa) sul web.
L’apripista Vuitton
Del resto se un colosso del lusso come Louis Vuitton già parecchio tempo fa si alleò con uno dei personaggi più influenti dell’arte contemporanea come Jeff Koons per creare una linea di borse su cui rimbalzavano dalle Ninfee di Monet a Le déjeuner sur l’herbe di Manet, fino alla Roma Antica di Turner, e a La ragazza distesa di Boucher, significa che il matrimonio dà buoni frutti. Anche in quel caso ci fu chi protestò spiegando che un dipinto maestoso come per esempio le Ninfee, non può che risultare mortificato se finisce su una pochette alta venti centimetri.
La causa alla Mattel
Dalle borse alle sneaker passando dall’icona per eccellenza che assorbe mode e senso dei tempi come una spugna: la Barbie. Anche l’ormai ultracinquantenne «fashion doll» ha già ceduto al richiamo del mondo dell’arte. L’8 marzo scorso ha lanciato 14 bambole dedicate alle grandi donne del passato, fra cui la pittrice messicana Frida Kahlo scomparsa nel 1957. I parenti hanno risposto all’omaggio facendo causa – e vincendola – alla Mattel che ha dovuto ritirare la vendita della bambola in Messico. Peccato che René Magritte non abbia eredi che ne possano tutelare la memoria. Perché essendo di recente diventato un’«action figure» (con Rembrandt, Dalì e Leonardo) all’occorrenza si può trasformare in profumatore d’ambiente. Nonostante una delle sue opere più famose sia Ceci n’est pas un pipe, il salto è un po’ audace.