Corriere della Sera, 9 agosto 2018
Nessuna pietà per i vinti, il Seneca più buio nelle «Troiane» di Machìa
Seneca in scena non lo si vede mai. Assistendo in Francia a un’edizione del Tieste mi ero fatto l’idea di una sostanziale disposizione di Seneca a tradurre in una lingua didattica la propria filosofia. Statici i personaggi, per lo più monologanti, statica l’azione. Ma diverso appare in Troiane (oggi a Segesta) per la regia di Alessandro Machìa. La matrice è Euripide. Ma rispetto alle Troiane gli accenti e il tono sono più bui: impossibile dare un senso all’esperienza, nella guerra permanente tra gli uomini nessuna pietà per i vinti, non c’è salvezza ovvero libertà se non nella morte. Uno studioso di Seneca, Giovanni Viansino, ricorda come lo scrittore disponga «con rotture paratattiche simili a un montaggio cinematografico» eventi da Euripide trattati in tragedie diverse: la disputa tra Agamennone e Ulisse (che in Seneca è Pirro, non nello spettacolo), il tentativo di Andromaca di salvare la vita del figlio Astianatte, l’assegnazione delle donne ai capi greci vittoriosi e pronti a tornare da Troia a casa, e soprattutto il sacrificio di Polissena e proprio di Astianatte. Quale il punto? Quello che si era posto all’inizio della guerra di Troia, il sacrificio di Ifigenia figlia di Agamennone perché gli dei consentano che si levi il vento e le navi partano, qui si pone alla fine: perché le navi possano alzare le vele, devono essere sacrificati non solo Astianatte – che in quanto figlio di Ettore da adulto potrebbe organizzare la vendetta – ma anche Polissena, figlia di Priamo, ormai morto, e di Ecuba, cui tocca lamentare la morte di tutti i suoi e scongiurare quella della figlia che le è rimasta. Nella bella traduzione di Fabrizio Sinisi, da non confondere con Michele (meno giovane di Fabrizio e già affermato drammaturgo), ci sono una riflessione allo specchio di Elena e un confronto con Ulisse, da lui stesso scritti, che si sentono non provenire (per così dire) da lontano ma che hanno una loro dignità benché, forse, non necessità. Questa Elena, che è Silvia Siravo, spicca anche per la sua veste rossa, unica nota di colore pieno dello spettacolo. All’inizio e alla fine compare un Agamennone diverso da ogni altro Agamennone conosciuto, più riflessivo e ormai sapiente, equilibrato: tale lo rende con magnifico distacco Paolo Bonacelli. Il suo avversario Ulisse è al contrario un imperativo e quasi impetuoso Edoardo Siravo. Ma altrettanto convincenti sono le prove delle «troiane», delle attrici: Marcella Favilla è Ecuba, Alessandra Fallucchi è Andromaca, Cecilia Zingaro è Polissena, Gabriella Casali è la scintillante Corifea.