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 2018  agosto 09 Giovedì calendario

Chef Rubio contro tutti. «Il vero cibo? È solo nelle bettole»

Chef Rubio, lei è stato il primo a portare in tv il cibo di strada, che ora vive un boom: mille imprese in più negli ultimi cinque anni. Più 60 per cento, secondo Unioncamere. Si sente responsabile?
«Purtroppo, sì. Mi sono fatto portavoce di un messaggio usato poi al mero scopo di far soldi. Il mio primo Unti e Bisunti è andato in onda su DMax proprio cinque anni fa, ma io volevo portare alla ribalta i vecchi artigiani affinché i giovani li aiutassero a non chiudere bottega, o usassero i social per segnalarli».
E invece?
«A parte i pochi che hanno viaggiato per conoscere il vero cibo, gli altri hanno mangiato per moda e cucinato per business senza salvare niente. Si riempiono la bocca delle parole street food, ma già chiamarlo così non mi piace. Non condanno il giovane che vuole fare qualche soldarello, ma lo spirito che c’è dietro».
Lei come si è appassionato al cibo di strada?
«Io vado solo nelle bettole: lì si parla con le persone, impari più cose, conosci chi ha preparato il cibo. Le rare volte che mi siedo al ristorante me ne pento: il luogo è, di per sé, slegato dall’essere umano».
Mi dica un piatto di strada memorabile.
«Il Kak’ik in Guatemala. Ci sono appena stato con l’Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo dell’Onu. Facciamo una serie web di “ricette per il cambiamento”».
Che ha di speciale il Kak’ik?
«Il rituale. È un tacchino delle feste. Seguirne la cattura e la benedizione ti fa dare valore al piatto e ti fa socializzare con chi lo prepara. Ne tocchi povertà e generosità».
Dove si mangia vero cibo di strada in Italia?
«Il baluardo è Palermo. Napoli, ormai, lo è meno. Siamo stati tutti rimbecilliti dalle leggi sanitarie. Il supplì buono è stato ammazzato dalle normative europee».
Il rischio è l’igiene. Lei quando è stato male?
«Mai. Ho bevuto ogni acqua, mangiato frutta e verdure senza lavarle. Ho sviluppato gli anticorpi».
Nel suo ultimo libro, «Mi sono mangiato il mondo», scritto per Rizzoli, racconta di essere stato preso dalla Sindrome di Stendhal mentre ammirava i piatti preparati in un mercato vietnamita.
«Volevo un libro sui miei viaggi raccontati coi miei pensieri e l’altra mia passione: la fotografia. Mangiando, scopri l’anima di Paesi e persone. Io viaggio per incontrare me stesso attraverso gli altri e ciò che mangiano. Nei mercati, sento vivi corpo e mente».
Quale mercato ama di più?
«Tsukiji a Tokyo, tempio mondiale del pesce. Ora ha cambiato sede, tremo al pensiero di cosa sia diventato».
Cos’è lo jambu del libro?
«Un’erba con cui in Brasile fanno una specie di digestivo. Lo bevi ed è urticante. Capisci quanto siamo stati rimbambiti dagli amari industriali».
Ha mangiato il geco arrostito che ha fotografato?
«La donna che lo grigliava non ha voluto darmelo: era per far riprendere suo figlio dalla febbre».
La cosa più strana che ha assaggiato?
«Il cibo del McDonald’s e del supermercato».

Che cosa rende unico il cibo di strada?
«Il rispetto e l’amore di chi lo maneggia come se fosse la cosa più preziosa al mondo».
Perché ce l’ha con gli chef?
«Perché i più pensano di saper fare e non sanno nulla».
E perché ha studiato alla scuola di Gualtiero Marchesi?
«Dovevo conoscere il nemico per combatterlo. A me del cosiddetto “sistema food” fa schifo tutto: le stelle Michelin, i programmi tv per diventare cuochi, le ricette buone solo per far sentire inadeguato chi non sa cucinare».
Ha prodotto un corto sui Rom, dal titolo Elias. Quale piatto rom farebbe assaggiare al ministro Matteo Salvini?
«I Rom, non avendo una loro terra, si adattano. Qui cucinano italiano. Ho provato una loro pasta buonissima».
Lei cucina?
«Solo per chi dico io. Non è che un artista fa i quadri su commissione».
Immagino non badi all’impiattamento.
«No, non serve un genio per mettere la foglia d’oro».
Cibo a domicilio ne ordina?
«È il male assoluto, fa solo crescere l’obesità e la depressione: soli sul divano, mangiando e guardando Netflix. Ho immaginato un video per una canzone che parla di questo, uscirà presto».
In tv, anche in Camionisti in trattoria, stramangia. Come mantiene la linea?
«Mi sacrifico così solo in televisione, per farvi divertire».
Che va a mangiare quest’estate e dove?
«Mangerò in povertà. Vado a Dzanga Sangha, nella Repubblica Centrafricana, in una riserva di gorilla, col Wwf. Volevo andare a Virunga, in Congo, ma è troppo pericoloso, ci hanno appena ucciso sei ranger: i bracconieri vogliono che il parco si deprezzi, così le grande aziende comprano la terra a due lire. Nell’ambiente, è tutto collegato: il gorilla è il custode delle foreste e se non preservi le foreste si compromette tutto».
A proposito di luoghi pericolosi. Quando ha rischiato la pelle per mangiare bene?
«A luglio, in Guatemala. Sono stato rapinato delle macchine fotografiche da tre uomini con la pistola».
Quanto si è spaventato?
«Sapevo che bastava dar loro tutto. Ho rischiato di più per raggiungere villaggi sperduti su mezzi di fortuna. Ma il mio motto è che la fame vien viaggiando».