La Stampa, 30 luglio 2018
Google vieta le app che generano i bitcoin
Nuova stangata alle criptovalute. Questa volta è Google a scendere in campo vietando dal suo negozio virtuale le applicazioni che generano bitcoin e concorrenti varie. «Non consentiamo agli utenti di scaricare App per il ‘mining’ sui dispositivi» annuncia Mountain View, precisando che su Play Store rimangono comunque disponibili i programmi che gestiscono da remoto la produzione, ovvero fuori dai dispositivi, come ad esempio le piattaforme cloud. Il “mining” deriva dal termine inglese “to mine” ovvero estrarre, ed è il modo utilizzato dal sistema bitcoin e dalle criptovalute in generale per emettere moneta.
Minare Bitcoin, ad esempio, vuole dire ottenere Btc generati dalla rete e distribuiti online. Ebbene la censura, secondo gli esperti, trae ragione dai rischi che le app di mining sollevano per i sistemi che le usano: smartphone, tablet e computer possono infatti incorrere in danni interni se “l’estrazione” non è gestita propriamente, con un rallentamento evidente del sistema e possibili problemi alle batterie. A questo si aggiungono i rischi “malware” a cui il mining espone i dispositivi, ovvero all’esposizione ad attacchi da parte di software dannosi (malicious software) creati per disturbare le operazioni svolte da un computer, rubare informazioni sensibili, accedere a sistemi informatici privati, o mostrare pubblicità indesiderata. Oltre al rischio di diventare vittime di “rapimenti” da parte di hacker: i pirati della rete possono infatti catturare dati e informazioni sensibili e chiedere un riscatto per restituirli o sbloccarli. La decisione di Mountain View va a rafforzare ulteriormente il fronte anti valute digitali promosso dalla Silicon Valley, con misure simili adottate nei mesi scorsi già da Apple. Mentre Facebook e Twitter hanno vietato le pubblicità “cripto” sulle loro piattaforme. Negli ultimi giorni un altro colpo a bitcoin e concorrenti varie era stato inferto dalla Sec.
La Consob americana ha respinto, per la seconda volta in 18 mesi, la richiesta dei “tecno-gemelli” Cameron e Tyler Winklevoss, i rivali di Mark Zuckerberg, per la creazione di un exchange-traded fund sul Bitcoin. Si tratta di un fondo di investimento scambiato come un titolo azionario in Borsa (Etf) ma modulato sulla madre di tutte le criptovalute. Una creatura “potenzialmente letale” secondo le autorità di vigilanza perché cova incognite inquietanti in termini di «resistenza alla manipolazione», frodi e rischi per gli investitori.