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 2018  luglio 30 Lunedì calendario

«Nostro figlio irriconoscibile. Anche curarlo era impossibile»

Vuol sapere cosa significa avere un figlio Hikikomori? Significa che da un momento all’altro ti trovi a mettere in discussione tutta la tua vita, le tue scelte, il tuo modo di essere. Lo fai perché sei un genitore e non puoi accettare di vedere tuo figlio ridotto così. Non è più il bambino che hai allevato, è un’altra persona che ti rifiuta, e rifiuta tutto e tutti». Parla la mamma di un diciannovenne torinese che per quattro anni è scappato dal mondo, diventando uno dei 100 mila ragazzi italiani precipitati in questo tunnel verso il nulla. I nomi sono finti, e qualche dettaglio è cambiato perché questa era la condizione per poter raccontare questa storia. Perché, anche se Domenico adesso sta meglio, l’inferno è ancora lì, in agguato. 
Si ricorda quando è iniziato?
«Lui stava completando le scuole medie quando si sono manifestati i primi sintomi. L’esame di terza lo ha dato, e lo ha superato anche bene. Al liceo, invece, è stato un dramma. Fin dall’inizio».
In che senso?
«Ha cominciato col dire che stava male. Ogni mattina un problema diverso: una volta mal di pancia, un’altra un po’ di febbre, un’altra mal di testa. Malattie che miracolosamente sparivano non appena gli dicevo “stai a casa”».
E lui che cosa faceva?
«Se ne stava chiuso nella sua camera. Giocava dalla mattina alla sera con il computer».
Lei e suo marito come l’avete preso questo suo atteggiamento da eremita?
«All’inizio pensavamo fosse solo svogliato. E sa come vanno queste cose: prima gli abbiamo parlato, poi lo abbiamo sgridato. E intanto lui si chiudeva sempre più». 
Un tormento per voi genitori, non è vero?
«Molto di più. Perché quando Domenico ha cominciato ad escludere anche gli amici, le frequentazioni solite, a vivere nel suo mondo, per noi è stato un trauma: litigavamo, ci accusavamo di tutto. Mio marito diceva “è tutta colpa tua che sei sempre stata troppo molle”.Ed io ero sempre contro di lui:siamo finiti così in un’orrenda spirale senza uscita».
Non avete mai pensato che potesse trattarsi di una malattia, di un problema risolvibile con uno psicologo o uno psichiatra?
«Centinaia di volte. Siamo andati da un sacco di medici e abbiamo sentito le cose più diverse. Ma all’inizio era un guaio: io fissavo l’appuntamento dallo psicologo e mio figlio non andava mai. Come si fa a trascinare un ragazzo di 15,16 anni dal medico se non vuole? Non è più un bambino».
E con la scuola come avete fatto?
«Neanche a metà anno ha smesso di frequentare. Gli insegnanti ci chiedevano notizie e non sapevamo cosa dire. Lui è sempre stato molto bravo in tutte le materie. Ne andavamo orgogliosi». 
E con l’altro vostro figlio?
«Vedeva il fratello che stava sempre chiuso in camera a giocare tutto il giorno, che dormiva, che si alzava la notte. A volte diceva: “Perché lui può starsene a casa e io no?”. Un disastro sotto ogni profilo. Poi per fortuna le cose sono cambiate».
In che modo, scusi?
«Abbiamo cominciato a fare ricerche sul web. E lì abbiamo conosciuto dei gruppi di genitori che avevano figli con lo stesso problema di Domenico. Loro sapevano già che il figlio era un Hikikomo».
E vi sono stati d’aiuto?
«Di più. Ci hanno spiegato come comportarci. Come risolvere i momenti di crisi».
E come si fa?
«Attraverso il dialogo. Abbiamo imparato a non chiedere più, ma ad ascoltare il suo disagio. Le sue paure. Quella è stata la strada».
Oggi come sta Domenico?
«Oggi, dopo quattro anni, possiamo dire di essere finalmente fuori da quell’incubo: è tornato il ragazzo di sempre». 
Ha abbandonato la stanza?
«Sì. Domenico è tornato a scuola. Non frequenta più il liceo ma un altro istituto».
Ha degli amici?
«Ora sì. Esce regolarmente con altri ragazzi. Alcune sono persone che ha conosciuto quando è tornato ad avere una vita sociale, com’è giusto che sia alla sua età. Altre sono vecchie conoscenze».
Ha anche una fidanzata?
«Beh, queste sono cose che i genitori sanno sempre dopo».
Non gliel’ha chiesto?
«Io non chiedo. Se vuole me lo dice. Da poco Domenico ha anche ripreso a parlare e a confidarsi con noi».