La Stampa, 30 luglio 2018
Sotto assedio i giornalisti del Tg3
Nacque per caso, RaiTre. All’inizio nessuno ci puntava una lira, ma nel corso dei decenni è diventata una rete con un’identità così forte che da qualche settimana si è trasformata in oggetto del desiderio per il governo sovranista. Come finirà questa vicenda, Di Maio e Salvini devono ancora deciderlo, la battaglia è aperta, ma anche per loro sarà difficile ignorare una storia che «pesa» e che ebbe inizio il primo giugno del 1987. Per la prima volta un giornalista comunista, molto comunista, assunse la direzione di un telegiornale di Stato, il semiclandestino Tg3. Quel giornalista si chiamava Sandro Curzi, la sua sembrava una breve parentesi e invece negli anni successivi, ben 31 fino ad oggi, il Tg e la Rete Tre sono restate ininterrottamente un’isola della sinistra, grazie ad una «striscia» di programmi e ad un telegiornale che hanno lasciato il segno e «creato» un pubblico.
Ma nei prossimi giorni, una volta consolidato il Cda Rai, Di Maio e Salvini faranno «asso pigliatutto», rompendo così una prassi che per decenni ha lasciato angoli di pluralismo a partiti che si ritrovavano all’opposizione? O terranno conto di un certo pluralismo – altrimenti definito lottizzazione – che nella vicenda Rai è sempre stato imposto dall’esistenza del canone (lo pagano tutti) e da una sentenza della Corte Costituzionale, del 1974, che prescriveva «obiettività, completezza e imparzialità».
È da queste premesse che nel 1987 il giovane dirigente del Pci Walter Veltroni perfezionò un accordo «rivoluzionario» con Dc e Psi, pilotando i comunisti nel mondo della lottizzazione: il Pci avrebbe espresso le direzioni del Tg3 e della Rete Tre, fino a quel momento emittenti irrilevanti. Il declinante Pci di quegli anni giocò su questo terreno una partita brillante, dagli effetti duraturi: il fazioso Tg3 di Curzi, ribattezzato «Telekabul» da Giuliano Ferrara, passò dal 2 a oltre il 20% di share, mentre sotto la direzione di Angelo Guglielmi nella Rete partirono tantissimi programmi che, nel bene e nel male, avrebbero fatto scuola. Come la «Samarcanda» di Michele Santoro. O come «Chi l’ha visto», ancora in onda. Proprio il successo della programmazione ha aiutato la sinistra a «tenere» RaiTre anche durante tre governi Berlusconi.
E stavolta? Osserva Maurizio Mannoni, per i telespettatori uno dei volti che si identificano con RaiTre: «È la Rete che più di altre nel corso degli anni ha mantenuto un’identità e un proprio pubblico. E tutto questo rappresenta un patrimonio per una tv generalista che invece fatica a mantenere un proprio ruolo. Sarebbe un peccato disperdere tutto questo». RaiTre ha due direzioni. Quella di rete ha un controllo strategico: i talk show. Da casa Cinque Stelle trapela una voce che è un’indicazione: «La Rete avrà un indirizzo a noi gradito». Potrebbe coincidere col profilo della Rete, già indicato dall’attuale direttore Stefano Coletta: «RaiTre non può più vivere di contrappunto rispetto a un avversario: è un canale permeato da una cultura di sinistra, ma ha anche una tradizione di servizio». Cioè quella delle trasmissioni dalla parte dei cittadini, che sta tutto nelle corde pentastellate. E il Tg3? Da qualche giorno i redattori, quasi tutti di sinistra e difficilmente riconducibili a una cultura diversa, sono più tranquilli, convinti che resti l’attuale direttore, Luca Mazzà, che ha «alleggerito» il telegiornale dall’aura tardo-comunista dei decenni precedenti. Anche se la sfida più insidiosa alla «vecchia-nuova» RaiTre ma anche a La7 verrà dalla rinnovata e agguerritissima Rete4 voluta da Berlusconi e che schiererà due ex RaiTre come Piero Chiambretti e Gerardo Greco (già direttore del Giornale Radio Rai), un talk con Nicola Porro e una striscia serale quotidiana con Barbara Palombelli, che sfiderà Lilli Gruber.