Ottantacinque anni da compiere il 25 agosto, qualche esitazione nella voce ma una memoria di ferro, Shorter, 10 Grammy Award, una luminosa carriera solistica post-Davis e una rinomata militanza con i Weather Report, aveva già presentato alcuni di questi brani nell’edizione 2017 di Umbria Jazz. «La cosa interessante è che abbiamo registrato con un’orchestra senza direttore; ogni musicista ha la possibilità di interagire con noi esattamente come in un gruppo jazz».
Jazz e graphic novel sono un abbinamento piuttosto inedito. Come nasce l’idea di questo album “illustrato”?
«Conoscevo e apprezzavo Randy DuBurke, Sono sempre stato attratto dalle graphic novel, scrivere musica riferendomi a una storia, qualcosa che esuli dall’immediatezza della pop song per affrontare un discorso più complesso e articolato. Fino a quindici anni consideravo arte solo quella che finiva sui libri, poi cominciai a suonare il clarinetto e ad ascoltare Stravinsky e Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Dvo?ák, Verdi e Puccini, Ella Fitzgerald e Louis Armstrong. Facevo arrabbiare i melomani quando dicevo: “Ogni cantante d’opera dovrebbe studiare Louis Armstrong”. Non ho fatto in tempo a collaborare con Satchmo e Billie Holiday, ma almeno ho avuto il privilegio di suonare con Joni Mitchell, un’artista speciale, una combattente, la sua collaborazione con Charlie Mingus lasciò tutti di stucco».
Dizzy Gillespie pubblicò un brano intitolato Enamon nel 1946…
«All’epoca ero un adolescente, mi colpì molto. No name può significare un mondo di cose. Ciò che lega Emanon ad artisti e supereroi è la ricerca di originalità, che è quanto di più prossimo alla creazione. L’uomo invisibile di Ralph Ellison, come anche Superman, perde i propri superpoteri per diventare “umano”; è quel che dovremmo fare tutti noi».
Che musica ascoltava da ragazzo?
«Quella che tutti consideravano impopolare. Lo stesso facevo con i libri, leggevo quelli che nessuno conosceva. Ho ancora la mia collezione – ora molto più grande – di libri dimenticati, come quelli di John Crowley, autore di complessi romanzi di fantascienza. La definizione “best seller” mi è sempre stata antipatica, indica un mercimonio tra arte e mercato. La mia musica è il modo creativo di far avverare un desiderio. Immagino lo fosse anche per Beethoven».
Che ricordo ha dell’epoca in cui scrisse E.S.P., Sanctuary e Nefertiti per il quintetto di Miles Davis?
«Con lui tutto era speciale, mai niente di prevedibile. La cosa eccezionale era che tra noi non si parlava mai di musica. Non provavamo mai. Tutti noi – Herbie Hancock, Tony Williams, Ron Carter e occasionalmente Gil Evans – salivamo sul palcoscenico e solo in quel momento, suonando, iniziava il dialogo sulla musica. Poco prima che Miles ci lasciasse mi disse: “Wayne, voglio che tu scriva qualcosa per orchestra d’archi, ma per favore lasciami una finestra aperta da cui possa uscirne”. Morì tre mesi dopo, non se ne fece nulla».
Davis spianò la strada alla fusion, lei ne raccolse i frutti con i Weather Report. Per voi fu l’occasione di esibirsi di fronte alle enormi platee del rock e del pop.
«Ma a nessuno di noi passò per la testa di cambiare attitudine, nessuno s’illuse che saremmo diventati “pop” o che sarebbe stato per sempre. Ero lo stesso Wayne che suonava nei jazz club».
Come considera la scena musicale odierna?
«Ci troviamo in uno di quei cosiddetti periodi di mezzo, qualcosa d’importante succederà molto, molto presto; le scelte torneranno a essere individuali e non collettive, arte e telefonino non riusciranno ad andar d’accordo. Siamo in attesa di un nuovo Rinascimento. L’artista deve vivere in trincea, ispirare la gente, avere il coraggio di esplorare territori sconosciuti esattamente come un astronauta o un esploratore. Ho realizzato questo disco anche per lanciare un messaggio all’America che ha votato Trump: svegliatevi! è ora di aprire gli occhi!».