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 2018  luglio 28 Sabato calendario

A proposito del nuovo Meridiano su Shelley

Percy Bysshe Shelley fu cacciato dall’università di Oxford per avere scritto un pamphlet sulla «necessità dell’ateismo». L’anno dopo ne scrisse un altro a favore «del popolo irlandese», che gli valse l’invito a parlare ad un incontro del Comitato Cattolico (cattolico e quindi sovversivo) e alla sua schedatura come spia. Due anni più tardi il ventiduenne Shelley lasciò l’Inghilterra abbandonando la giovane moglie Harriet, incinta, per fuggire insieme alla giovanissima Mary Godwin, che poi sposò dopo il suicidio di Harriet. Romantico eroe byroniano almeno quanto Byron stesso, Shelley trasferì le stesse convinzioni radicali e la stessa prorompente passionalità in una produzione poetica in cui spesso si ergeva ad accusatore del potere e dei potenti e a paladino degli oppressi e del diritto alla libertà.
Emblematica, a questo proposito, è una delle sue liriche più famose, La mascherata dell’anarchia, che troviamo insieme a tutta la produzione poetica di Shelley nella preziosa antologia delle sue poesie pubblicata nei Meridiani Mondadori a cura di Francesco Rognoni. Questo è il primo dei due volumi che conterranno la scelta più ampia dell’opera di Shelley mai pubblicata in Italia (nel secondo ci saranno il testo teatrale I Cenci, le prose e le lettere) e offre, con testo a fronte, la traduzione dei circa sedicimila versi del più romantico dei poeti romantici. Francesco Rognoni, che ne è il traduttore insieme a Massimo Mandolini Pesaresi, nella sua dotta ma al tempo stesso agile introduzione offre una guida sicura (e partecipe) al percorso poetico di Shelley, suggerendo quali sono le gemme più luminose che compaiono nelle 1200 pagine delle Opere poetiche. 
Una centralità indiscussa viene assegnata a Prometeo liberato, il dramma lirico che Rognoni accosta e contrappone alla tragedia I Cenci, visti come il mito antico e il mito moderno – a Roma, scriveva Shelley nella prefazione, non c’è persona che non conosca la vicenda di Beatrice Cenci. Ma è in Prometeo, lavoro straordinario anche per la ricerca metrica (comprende infatti più di trenta diversi schemi lirici), che soprattutto si dispiega la vena poetica di Shelley e si manifesta la sua utopia visionaria. Prometeo è il benefattore dell’umanità, che ha sfidato Giove, dio tirannico che alla fine sarà detronizzato dal figlio Demogorgon, che rappresenta il Fato ma anche la necessità storica. La sconfitta del tiranno, proposta come la vittoria del bene sul male, segna l’inizio di una nuova era, in cui tutti gli uomini sono uguali, «senza distinzione di classe, di etnia e di nazione». Una visione davvero utopistica, memore di quegli ideali della Rivoluzione Francese che i poeti romantici della prima generazione avevano presto abbandonato. Al Prometeo Shelley lavorò quasi due anni, apportando ancora piccoli ritocchi quando già il testo stava andando in stampa e lo raccomandava come la sua creatura preferita (le informazioni e il commento al Prometeo, come a tutti gli altri lavori, si trovano nel ricchissimo apparato di note a cura di Francesco Rognoni con cui si conclude il volume).
Nel libro in cui fu pubblicato Prometeo sono comprese alcune delle più belle e famose liriche di Shelley, le gemme di A un’allodola e di Ode al vento d’Occidente, scritta quest’ultima in risposta a una recensione sprezzante apparsa sulla Quarterly Review. Al recensore, scrive Rognoni, Shelley «ribatte nel modo più sublime» con questa composizione scritta in terza rima in cui il poeta chiede all’impetuoso e immaginario vento dell’Ovest di trascinarlo in cielo con sé e di spargere «come da un inestinto focolare cenere e scintille, le sue parole fra gli uomini»: parole di rivolta, che promuovano una Primavera di libertà.Fu il vero e proprio vento dell’Ovest, pochi mesi più tardi, che travolse l’imbarcazione su cui si trovava Shelley, diretto da Livorno a Lerici. Quando il mare restituì il suo corpo sulla spiaggia di Viareggio, gli amici gli trovarono nella tasca della giacca l’ultimo libro di poesie di John Keats, morto l’anno prima. L’ultimo grande lavoro di Shelley, Adonais, è un’elegia scritta proprio «per la morte di John Keats», una classica elaborazione del lutto che Shelley combina con la sua visione della poesia come una forza divina che consente all’uomo di trascendere i suoi limiti e di ascendere nel cielo della verità.
Altri splendidi versi ancora il lettore troverà nelle pagine che vengono dopo l’elegia. Versi d’amore (quelli dedicati a Jane, tra i più amati dagli scrittori inglesi), di inquietudine, di contrapposizione tra la semplicità della natura e la complessità delle motivazioni umane. Fino a quelli del dantesco Trionfo della vita, che la morte gli impedì di concludere.