Tuttolibri, 28 luglio 2018
La Capria racconta a Silvio Perrella la passione per la scrittura
«Ho l’impressione, che fino a un certo punto della tua vita hai scritto pensando solo a scrivere, poi hai cominciato a scrivere pensando a parlare, cioè era come se scrivere fosse un modo di parlare. Quasi che non ci fosse più bisogno della pagina, bastava la voce, la sola voce. Scrivere con la voce». Chi parla è Silvio Perrella, a colloquio con Raffaele La Capria in Di terra e di mare, fitto dialogo a due pubblicato ora da Laterza. Un novantacinquenne splendido per intelligenza e lucidità si racconta a un amico assai più giovane in un testo scritto capace di rendere il piacere della conversazione, restituendone intatto il sapore delle voci. Non a caso, del resto, proprio le voci sono protagoniste del discorso. La voce del narratore, anzitutto: quella che La Capria pensa di aver «trovata sempre. In ogni libro ho cercato di essere me stesso e di stare su ciò che veramente consideravo importante per la mia esperienza sensoriale e intellettuale. Ho dato molta importanza a tutt’e due questi tipi di esperienza. Sulla pagina tutto questo ha preso negli anni intonazioni diverse, però sempre la mia voce è». Una voce che anche qui pare di ascoltare, nel calore dell’accento napoletano. È quella di un innamorato perenne di Napoli, città contraddittoria che La Capria ha lasciato in gioventù per trasferirsi a Roma, ma ha mantenuto intatto il suo fascino. «Amore e odio spesso si confondono, ed è la gelosia il sentimento che meglio esprime questa conflittualità delle emozioni. Sai quante volte, tornando a Napoli, mi sono sentito rimproverare di essere andato via, quasi la mia fosse una diserzione».
Napoli significa anche i suoi abitanti, illustri e meno, come Rosaria, «cuoca impareggiabile di piatti memorabili» a Palazzo Donn’Anna. «Senza di lei mi sarebbe rimasta estranea una parte di Napoli, quella plebea, che lei rappresentava alla perfezione perché era un concentrato di tutte le strutture del pensiero plebeo, e quando parlavo con lei mi pareva di essere un antropologo nel pieno del suo lavoro». Quella Napoli dove si aggirano amici come Luca De Filippo, ritratto nel complesso rapporto con suo padre Eduardo. «La famiglia De Filippo e quasi due secoli si specchiano l’una negli altri. E Napoli sta al centro come un mediatore potente e ramificato».
Intervistatore esemplare – vedere per credere il suo ultimo libro, Insperati incontri, pubblicato da Gaffi – Perrella è stimolatore maieutico, capace di partecipare alla conversazione senza mai andare sulla voce del suo interlocutore, che così è libero di abbandonarsi alle sue passioni letterarie, soprattutto Proust e Eliot, tradotto in gioventù. Su tutto, com’è giusto, prevale il narratore: quello dallo stile essenziale di oggi, con «un’impronta di una semplicità estrema, talmente estrema che può avvicinarsi alla pura biografia». Uno stile che, anche nella sua oralità, è possibile apprezzare appieno quando lo scrittore si lascia andare al piacere del racconto: «Una mattina del 1942 al mare. C’era burrasca, con le onde che si levavano alte (ma sott’acqua, sempre, tutto era calmo). Nuotavo in superficie inseguendo una spigola in un tratto di mare irto di scogli taglienti. All’improvviso mi trovai in difficoltà tra le onde e gli scogli. Ogni volta che tentavo di contrastare la forza dei marosi le onde mi sbattevano contro gli scogli e mi ferivo a sangue. Allora mi lasciai andare, e quando l’onda mi ghermiva mi abbandonavo a lei a corpo morto. Mi accorsi così che sfioravo miracolosamente gli scogli senza toccarli, per essere poi risucchiato illeso nella schiuma dell’onda che si ritirava…». Oppure: «la Villa Comunale era deserta a quell’ora, pareva solo abitata dalle statue degli dei e degli eroi che biancheggiavano tra il verde silenzioso degli alberi. Mi avviai lungo il viale verso il chiosco floreale che scintillava di vetri gialli e verdi sulle sottili colonnine di ghisa. Mi piaceva la cupola a forma di cappellino cinese che pareva fatta per Turandot. Sotto quel magico baldacchino un’orchestra del Comune spargeva una volta le note dell’Aida e della Gazza ladra tra le mamme e le governanti…». Squarci di racconto orale, con la loro aggettivazione impeccabile, che da soli basterebbero a giustificare il libro.