La Stampa, 29 luglio 2018
L’oro dei faraoni. E dell’immortalità
Il sarcofago tutto d’oro di Tutankhamon, conservato al Museo Egizio del Cairo, pesa più di 110 chilogrammi. Ma, nel loro piccolo, anche certi collari di Psusenne I (Pasebakenniut), un faraone della XXI dinastia morto intorno al 1000 a.C., superano i quattro: sempre di oro massiccio. Ritrovato intatto nel 1940 nella necropoli di Tanis, il tesoro di Psusenne - un sarcofago d’argento, la maschera funeraria e la copertura della mummia invece d’oro, come pure i ditali e i sandali, e i vasetti e i bracciali e le collane e i pendenti, con intarsi di lapislazzuli, diaspro e cornalina - si può ammirare fino al 9 settembre al Grimaldi Forum di Montecarlo nella mostra «L’or des Pharaons» ottimamente curata da Christiane Ziegler, conservatrice delle Antichità egizie del Louvre. Un’esposizione che lascia letteralmente a bocca aperta, resa possibile da 150 pezzi usciti per la prima volta dal museo del Cairo, a cui si sono aggiunti prestiti dalle principali collezioni internazionali, tra cui quella dell’Egizio di Torino.
Come la polvere nelle strade
Al di là del suo valore commerciale - fino all’inizio del Nuovo Regno era più pregiato l’argento, più raro, che veniva importato dalle miniere del Laurio e dalle Cicladi - l’oro (nebu nella lingua degli Egizi) aveva implicazioni magico-simboliche che lo rendevano essenziale nelle pratiche funerarie. Metallo divino, in quanto incorruttibile, era considerato emanazione del sole e «carne degli dèi», e la sua inalterabilità era garanzia della perfetta conservazione dei corpi, premessa per la prosecuzione della vita nell’aldilà: per questo, oltre a costituire il materiale dei sarcofaghi e delle maschere reali, ricopriva le parti più connesse alla vitalità, come la bocca e gli occhi o, in forma di bracciali, i polsi dove il sangue scorre a fior di pelle. «O Osiride», invocava il rituale dell’imbalsamazione, assimilando il faraone al dio dell’oltretomba, «tu camminerai sulle tue gambe fino alla dimora dell’eternità… Tu sei rigenerato dall’oro e rinvigorito dall’elettro… L’oro illuminerà il tuo viso nell’aldilà, respirerai grazie all’oro, uscirai grazie all’elettro…».
Il prezioso metallo abbondava nella valle del Nilo, in giacimenti in parte ancora oggi sfruttati che alimentavano il mito di un eldorado egizio - «L’oro puro è in Egitto come la polvere nelle strade», scriveva al faraone un principe orientale intorno al 1350 a.C., chiedendo di farsene mandare una certa quantità.
I lapislazzuli, chioma degli dèi
I deserti erano battuti senza posa fin dalle prime dinastie da cercatori, minatori e trasportatori che venivano chiamati sementyu, «uomini con la borsa» (portata in cima a un bastone appoggiato sulla spalla, come si vede nei rilievi) e avevano il compito di assicurare al sovrano, unico legittimo possessore e destinatario, tutto l’oro che gli serviva. Altri ingenti quantitativi giungevano sotto forma di tributi dai sudditi e dai paesi vassalli, beneficiando altresì i templi principali (sotto Thutmosi III, 1479-1425 a.C., quello di Amon a Karnak ne riceveva ogni anno 250 chilogrammi dalla Bassa Nubia) che ne disponevano in tale abbondanza da usarlo per rivestire i muri e le porte.
La civiltà egizia è stata una delle prime in grado di lavorare l’oro, con risultati di straordinaria raffinatezza fin dai tempi più antichi: in mostra diversi oggetti del periodo tinita (3100-2700 a.C.), tra i quali un bracciale ritrovato al polso di una sposa di Djer, faraone della I dinastia, composto da 27 perle piatte di oro e turchesi alternate in forma di falco appollaiato sulla facciata di un palazzo. Il metallo poteva essere impreziosito da una grande varietà di pietre fini, tutte presenti in Egitto a eccezione dei lapislazzuli, scelte per la loro qualità cromatica ma a loro volta legate a funzioni protettive in un preciso simbolismo: così il rosso della corniola e del diaspro evocava il sangue, il verde-azzurro dei turchesi rimandava al papiro, immagine di salute e giovinezza, il blu dei lapislazzuli al cielo stellato e alla capigliatura delle divinità.
Amonpanefer sotto processo
I fasti delle sepolture faraoniche si potevano ritrovare anche nelle tombe di personaggi di rango inferiore, come in quella di Yuya e Tuya - la cui figlia Tiy era diventata grande sposa reale di Amenofi III (Nuovo Regno, XVIII dinastia) - da cui provengono lo splendido sarcofago esterno della donna, di legno ricoperto di foglia d’oro, e il ricco corredo in esposizione al Grimaldi Forum. Mentre i sudditi meno facoltosi dovevano accontentarsi di tocchi di pittura gialla, a imitazione dell’oro, come nel sarcofago di Isis, donna appartenente a una famiglia di artigiani di Deir el-Medina, magnifica testimonianza, comunque, della posizione privilegiata di questa comunità di lavoratori della Valle dei Re.
Ma l’oro non era una prerogativa soltanto dei morti. In una società ignara del denaro, gioielli di metallo prezioso e pietre fini - indipendentemente dalla lavorazione, che non aggiungeva valore - rappresentavano la ricompensa che il faraone offriva ai sudditi per i loro servigi e che all’occorrenza poteva diventare un bene di scambio. Corrispondenti delle moderne decorazioni civili e militari, si trattava soprattutto di pendenti e di collane, come quella a quattro fili di perle discoidali esibita da Sennefer, un dignitario di Amenofi II vissuto intorno al 1400 a.C., nel gruppo statuario in mostra. Sei collane a due fili erano invece «l’oro della ricompensa» di Ay (eccezionalmente esteso anche alla moglie) nel frammento calcareo di una tomba di Tell el-Amarna, dove questo funzionario di Akhenaton (XVIII dinasta, 1350-1333 a.C.) in un’iscrizione proclama con orgoglio che il faraone «ha moltiplicato per me i compensi come i granelli di sabbia, perché io ero il primo dei suoi dignitari».
Tanta profusione di ricchezza non poteva non attirare le attenzioni dei predoni, che fin dall’antichità hanno fatto razzia nelle tombe, lasciandone poche intatte e costringendo spesso a mettere in salvo quel che si era salvato in nascondigli di fortuna, a volte traslocando e riunendo le mummie in altri sepolcri più sicuri. In mostra, un papiro di età ramesside (circa 1100 a.C.), scritto in bello ieratico, riporta la confessione dettagliata, ottenuta sotto tortura, di un certo Amonpanefer, scalpellino, che in combutta con sette complici aveva saccheggiato le tombe della Valle dei Re, riportandone un bottino di venti deben d’oro ciascuno, ossia 1,82 chilogrammi, equivalente a più di mille volte il salario annuale in cereali di un operaio caposquadra di Deir el-Medina. In una saletta un video d’animazione ricostruisce le fasi di un processo tipo. Piegato in ginocchio, l’imputato invoca lo stato di necessità, la famiglia da mantenere. Ma non c’è niente da fare. La voce fuori campo del giudice lo inchioda: «Condannato a morte!».