Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2018
Pittura, viaggio intorno alla cornice
Le cornici sono state giustamente definite il «più mobile dei mobili», perché poche componenti della storia dell’arte hanno subito più manomissioni, oscillazioni di gusto, sostituzioni e distruzioni delle strutture lignee predisposte all’incorniciamento delle opere. Per secoli sono state ritenute fondamentali per la valorizzazione e la protezione dei dipinti che racchiudevano, ma mode e tempo hanno portato alla rimozione, alla sostituzione e all’avvicendamento delle cornici, fino a quando le Avanguardie storiche non hanno agito per decretarne l’estinzione. Una grande rarefazione, in effetti, si è verificata, ma l’estinzione no.
Il libro La cornice. Storie, teorie, testi, a cura di Daniela Ferrari e Andrea Pinotti (Johan & Levi Editore) propone al lettore non solo le tappe fondamentali dell’affascinante storia della cornice, ma anche una ricca antologia di testi di filosofi, scrittori, sociologi, storici dell’arte e psicologi del Novecento, che sul tema della cornice hanno lungamente riflettuto e teorizzato.
Per cogliere l’origine della cornice dobbiamo spingerci molto indietro nel tempo. Greci e romani ne facevano largo uso, e lo sappiamo non perché se ne siano conservati esemplari ma perché affreschi e mosaici romani spesso riportano a trompe l’oeil finte cornici architettoniche o addirittura finti quadri incorniciati illusionisticamente appesi alle pareri.
Le prime cornici che conserviamo fisicamente risalgono al Medioevo. Le più antiche hanno una caratteristica particolare: sono ricavate dalla stessa tavola lignea destinata al dipinto, semplicemente ribassando la superficie centrale e lasciando inalterati i bordi.
Il Trecento e il Quattrocento furono i secoli d’oro delle cornici. Attingendo a piene mani al repertorio delle architetture gotiche (archi acuti, statue, pinnacoli, drôlerie, eccetera) i «maestri di lignamine» dei secoli XIV e XV crearono delle spettacolari carpenterie intagliate e dorate, capaci esaltare la sacralità di Cristo, della Vergine, dei Santi, dei Martiri e delle storie principali dell’epopea cristiana (Annunciazione, Adorazione dei Magi, Natività, eccetera). Aggirandoci per musei e chiese, soprattutto in Italia, ancora siamo in grado di ammirare l’abbagliante bellezza delle cornici gotiche, ad esempio nei polittici di Duccio da Boninsegna, Simone Martini o Gentile da Fabriano. Osservando quei dipinti racchiusi nelle rutilanti cornici originali, sembra incredibile che la maggior parte di esse siano state brutalmente divelte e smembrate solo perché passate di moda.
Su questo fronte si contano vittime davvero illustri, come il Polittico della Misericordia di Piero della Francesca, mortalmente impoverito dalla perdita della mirabile cornice originale, o come la Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci, in origine inserita in una spettacolare macchina d’altare ricca di intagli, ori e decorazioni alla quale, tra l’altro, lo stesso Leonardo aveva direttamente collaborato.
Furono le teorie di Leon Battista Alberti a far cambiare rotta alle cornici: l’architetto umanista consigliò che la cornice dovesse essere «una finestra aperta, per donde io miri quello che qui sarà dipinto».
E “finestra” fu: fossero esse tonde come nelle opere di Botticelli, Ghirlandaio e Michelangelo (il suo Tondo Doni conserva la cornice originale!), oppure in moltissimi altri casi «a tabernacolo», «a edicola» o «a cassetta», le cornici mutarono profondamente aspetto. Da quella detta «a cassetta» (privata a un certo punto di colonne, paraste e frontoni), derivò la «cornice da galleria» che – nella forma quadrata o rettangolare – è quella giunta sino a noi. Certo gli stili e le decorazioni si sono notevolmente differenziati: si pensi alla severe cornici nere della pittura olandese o, di contro, alle esuberanti cornici intagliate e dorate nell’Europa barocca e cattolica. Spesso furono gli artisti stessi a imporre i loro nomi alle cornici, tant’è vero che esistono cornici “Sansovino” ricche di intagli e decori, e cornici che si chiamano “Salvator Rosa” o “Maratta”, più sobrie ed essenziali. Il mondo neoclassico e ottocentesco impose la cosiddetta «cornice pinacoteca», semplicemente modanata e dorata, senza intagli lignei o decorazioni a pastiglia, che molti di noi ancora tengono in casa.
Questa, grossomodo, la storia. Ma quali pensieri e teorie hanno suscitato le cornici? Nell’ultimo secolo davvero molti e articolati. L’originalità del volume sta proprio nell’aver raccolto i principali contributi sulla teoria della cornice: da Georg Simmel a Victor Stoichita, passando per José Ortega y Gasset, Ernst Bloch, Meyer Schapiro, Jacques Derrida, Rudolf Arnheim, Louis Martin e il Gruppo ?. Tale ampia rappresentanza tocca tutto il Novecento e abbraccia tutte le differenti prospettive disciplinari, dalla storia dell’arte alla psicologia dell’arte, dalla filosofia alla semiotica.
Il concetto espresso da Leon Battista Alberti di cornice come “finestra”, è stato ad esempio approfondito da José Orteg ay Gasset, che così si espresse: «La finestra ha molto della cornice, le tele dipinte sono buchi di idealità praticati nella muta realtà delle pareti» (1921).
Di contro la cornice venne percepita come insopportabile gabbia. Concetto, questo, espresso in modo molto efficace e fulmineo non da un testo ma da un quadro, una tela a trompe l’oeil del pittore spagnolo Pere Borrell del Caso, ironicamente intitolata Sfuggendo alla critica (1874), nel quale il protagonista del dipinto cerca di uscire dall’angusto spazio delimitato dalla cornice per catapultarsi nella realtà.
C’è anche chi ha riflettuto sulla sostanziale inutilità della cornice. Piet Mondrian non ebbe dubbi: «Sono stato il primo a estrarre il quadro dalla cornice ponendolo in rilievo rispetto ad essa invece di inserirlo in essa. Avevo osservato che un quadro senza cornice funziona meglio di un quadro incorniciato». Ma dopo l’Orinatoio di Duchamp, non solo la cornice, ma anche il quadro, per molti artisti cominciò a non funzionare più.