Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2018
Montezuma, l’identità del collezionista
Nella Storia degli animali, Aristotele definisce il polipo stupido, perché quando un uomo lo avvicina gli va incontro e l’uomo può facilmente catturarlo. L’intelligenza di cui il polipo sarebbe privo, dunque, non è quella avvolgente che cerca di familiarizzarsi con il diverso ma quella distruttiva che il diverso lo fa a pezzi, e i risultati sembrano dar ragione al Filosofo: gli uomini mangiano regolarmente i polipi. Poi si guarda a come gli uomini si distruggono e si mangiano fra loro, e sorge qualche perplessità.
When Montezuma Met Cortés, di Matthew Restall, professore di Storia latinoamericana alla Pennsylvania State University, è giocato su una simile perplessità. L’8 novembre 1519, a Tenochtitlan, l’odierna Città del Messico, l’imperatore degli aztechi incontrò Hernando Cortés, che si proponeva come emissario di un altro imperatore, lo spagnolo Carlo V. Due civiltà stabilivano per la prima volta un contatto al vertice; di quell’occasione è stato detto (da Francis Brooks, altro storico) che «se esiste il momento mitico in cui è nata la storia moderna, è accaduto allora».
Ma che cosa esattamente accadde in quel momento? Per renderne conto, Restall si destreggia con sapienza fra memorie dei protagonisti, reperti archeologici e una tradizione culturale maestosa e controversa che comprende poemi, quadri, opere liriche e di narrativa, graphic novels e videogiochi. E libri di storia: cinque secoli di ricerca storiografica che lo storico Restall si dedica a smontare e contestare.
Esiste una versione ufficiale degli eventi, originata dallo stesso Cortés con una lettera a Carlo V. Inopinatamente, Montezuma si sarebbe dichiarato soggetto a Cortés e ai circa 250 spagnoli che lo accompagnavano. I quali avrebbero proceduto a farlo prigioniero, occupare il suo palazzo e trascorrervi mesi di strana, e stranamente quieta, coesistenza. Fino al giugno 1520, quando il palazzo venne attaccato dal popolo che voleva eliminare gli stranieri; Montezuma si sarebbe affacciato a una finestra per riportare la calma e sarebbe stato colpito da una pietra. Ne sarebbe morto, compianto dagli spagnoli, che sarebbero stati scacciati dalla città ma vi sarebbero ritornati, l’avrebbero posta sotto assedio e presa, conquistando un impero.
Questa versione è centrata su Cortés, eroe insieme omerico e machiavellico, prode in battaglia ma anche abile nel manipolare i nemici e sfruttarne le divisioni interne, realizzando infine il miracolo di soggiogare milioni di «indiani» con un modesto squadrone di soldati. Dall’altra parte, si colloca un Montezuma codardo fino al ridicolo, che nel pieno dei suoi poteri, circondato da decine di migliaia di fedeli, sceglie di consegnarsi nelle mani dell’invasore. Stupido, come un polipo; e se uno è stupido si merita la sua sfortuna.
Restall ritiene che questa versione sia un falso. Il più affascinante capovolgimento da lui compiuto riguarda lo zoo di Montezuma, un complesso straordinario che ospitava tigri e leoni, rettili e uccelli, e non aveva uguali in Europa. Né il sovrano si limitava agli animali: raccoglieva piante, oggetti artistici, libri e perfino esseri umani. Era insomma un collezionista, e «collezionare era il fondamento della sua identità di imperatore». Rivelava il suo «ambizioso desiderio di controllare il mondo»: di ottenere una conoscenza universale che era per lui l’aspirazione suprema.
Secondo Restall, Montezuma accolse i nuovi arrivati nel suo palazzo perché voleva collezionare anche loro. Per mesi dopo il loro sbarco li aveva sorvegliati da lontano, li aveva messi alla prova, adescati con ambascerie e doni, e ora, con un discorso in cui, in ossequio alle convenzioni della sua lingua, tanto più manifestava umiltà quanto più intendeva esaltarsi, li aggiungeva allo zoo. Contrariamente a quel che capì, o volle capire, Cortés, «il discorso di Montezuma non era la sua resa, era la sua accettazione della resa degli spagnoli».
Il resto fu caos. Quando il palazzo fu assalito, Cortés e i suoi uccisero Montezuma e pochi di loro si salvarono dalla strage che ne seguì. Ritrovatisi all’esterno, ricevettero cospicui rinforzi da Cuba ma, soprattutto, furono coinvolti in una guerra fratricida tra popolazioni diverse, approfittando della quale rientrarono in Tenochtitlan. Da allora in avanti, la loro fu una guerra di massacro, condotta perlopiù contro civili inermi sui quali le loro armi di ferro mostravano una spaventosa efficacia. Una serie di eventi bizzarri, casuali e spietati, in cui Cortés fu non un capo visionario ma la pallina impazzita di un flipper.
Installatosi nei suoi possedimenti, avrebbe tentato a lungo incursioni ovunque, in altre zone dell’America Centrale e anche al di là del Pacifico; ma senza nessun successo. Game over: la pallina era tornata nella buca. E rimane il rimpianto di quel che sarebbe potuto succedere se questo incontro fra due civiltà avesse imparato dall’intelligenza avvolgente del polipo invece che da quella brutale del suo cacciatore.