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 2018  luglio 29 Domenica calendario

Il bilancio dell’era Marchionne: Fiat senza rivali per la crescita

L’effetto forse più sorprendente della gestione di Sergio Marchionne in Fiat – certamente il meno scontato nel sentire comune – è l’aver ricondotto gli Agnelli alle origini, portando la holding di famiglia a concentrarsi di nuovo sull’auto. Un settore (esclusa componentistica, mezzi pesanti e trattori) che nel 2003, prima che arrivasse alla guida il manager italo -canadese, rappresentava il 40% dei ricavi della holding di famiglia, quando 14 anni dopo Fca più Ferrari sono invece arrivate a contare per il il 75% del giro d’affari del gruppo Exor. Ma quel che ancora è più sorprendente è che nel 2017 gli utili lordi di Exor erano spiegati per quasi il 90% proprio da quelle quattro ruote che 14 anni prima zavorravano i conti della “famiglia reale” del capitalismo italico.
Nel 2003, infatti, Fiat auto bruciava la bellezza di 5,6 milioni al giorno: il gruppo Ifi, nonostante la diversificazione – nelle assicurazioni, nella carta, nei media, nel turismo – perdeva ancora 356mila euro al giorno. Marchionne, nominato ad di Fiat – sconosciuto al grande pubblico – il 1° giugno 2004, aveva ereditato dall’esercizio precedente una società boccheggiante – in “fallimento tecnico” la definivano gli esperti – con un margine operativo netto franato in territorio negativo: -0,9% sui ricavi. Vale a dire che allora si lavorava per perdere. La “mission impossible” del manager è però miracolosamente riuscita, anche se probabilmente il capitolo finale è ancora da scrivere. Ecco come la raccontano i dati di bilancio, rigorosamente interpretati da R&S-Mediobanca.
La crescita 
Nei 14 anni dell’era Marchionne nessuno è riuscito a “diventare grande” quanto la Fiat, crescita interna e crescita esterna, con l’acquisizione di Chrysler nel 2011 (interamente consolidata dal 2012) – talmente malmessa che persino i tedeschi di Mercedes-Daimler l’aveano «sganciata»: +408,3% l’ampliamento del giro d’affari da fine 2003 a fine 2017 dell’auto Fiat con Chrysler e Ferrari. La seconda in corsa, Volkswagen, è rimasta ben distante: nello stesso periodo ha aumentato i ricavi del 164,7%. In coda le sorelle maggiori di Chrysler: +5,2% Ford e, addirittura in ridimensionamento dell’11,5%, Gm, che, pur di non farsi carico della Fiat, aveva pagato Marchionne 1,5 miliardi di euro per non esercitare l’opzione di acquisto. Nel settore dell’automotive piccolo non è bello, dato che sono le economie di scala la premessa indispensabile per stare al passo con la trasformazione tecnologica e sopravvivere. Chi resta nano è perduto.
La redditività 
Bene, ma unire le forze non basta. Ai tempi, molti guardavano con scetticismo a quella che reputavano l’unione tra due zoppi. Fatto sta che, se con la sola Fiat Marchionne era riuscito a portare il risultato operativo netto dal -0,9% del 2003 al +5,4% dei ricavi nel 2008 (prima dello tsunami Lehman), con Chrysler è ripartito da un margine mon dell’1,8% nel 2009 per salire al 5,9% nel 2017, il top dei suoi anni di gestione. Un livello di redditività inferiore a quello strutturalmente più elevato delle auto d’elite tedesche, Bmw e Mercedes-Daimler, ma sostanzialmente allineato a quello degli altri produttori di “massa”.
La produttività 
Costo del lavoro per unità prodotta: più l’indicatore è basso e più l’azienda è produttiva. Non conta quanto è remunerata la forza lavoro – la best in class, Bmw (clup del 54,6%) paga più di tutti -, bensì qual è il rapporto con il valore aggiunto prodotto. Ebbene, a dispetto del pregiudizio, Fca a riguardo non è messa affatto male. Il suo clup (costo del lavoro/valore aggiunto netto pro-capite) oggi è del 66,7%, meglio cioè di Peugeot (69,1%) e Volkswagen (72,8%).
La solidità finanziaria 
Sembra un’eresia parlarne, tanti sono stati gli anni in passato nei quali la Fiat ha dovuto combattere con la cronica sotto-capitalizzazione. Ebbene, per la prima volta nel 2017 il capitale netto della Fiat è risultato più che sufficiente a coprire i debiti finanziari, con un rapporto tra le due grandezze di 1,16. Nel 2014, quando la situazione era ben diversa (0,4 il rapporto capitale/debito), Fca aveva aumentato il capitale per un miliardo e emesso un prestito da convertire per 1,9 miliardi. Ma il vero “trucco” è stato trattenere gli utili: 7,1 miliardi di profitti non distribuiti dal 2013 (5,3 solo negli ultimi due anni) sono andati a rafforzare il patrimonio. I debiti finanziari – 18 miliardi nel 2017 – sono tornati al livello del 2007, dopo la punta di 33,7 miliardi del 2014.
Debito zero? 
Che significa? Marchionne ha consegnato nel primo semestre un indebitamento finanziario netto, azzerato nella parte industriale (escludendo cioè i servizi finanziari di credito al consumo – tipo pagamento rateale – dove il debito fa parte del “business”). Non vuol dire che i debiti sono scomparsi (nessun gruppo industriale può fare a meno di finanziarsi con banche e mercato obbligazionario), bensì che la liqudità ha superato i debiti. L’abbondante scorta di liquidità non è un’anomalia di Fca, bensì una pratica comune nel settore (probabilmente per non dover dipendere troppo dai finanziatori negli anni di vacche magre). Tuttavia, azzerare del tutto l’indebitamento finanziario netto esalta l’equity nel valore dell’impresa e massimizza di conseguenza il valore per l’azionista.
La Borsa 
La Borsa ha premiato infatti, senza se e senza ma, l’era Marchionne. Dal 1° giugno del 2004 al 20 luglio scorso il titolo è salito dell’867,4% contro il +193,5% dell’indice Ftse auto Europe e il +104,6% dell’Ftse auto world.
Conclusione 
L’ultimo capitolo dell’era Marchionne probabilmente è ancora da scrivere, ma Fca, senza indebitamento netto e con una redditività recuperata allo standard migliore, sembra essere stata preparata ad arte per partecipare al prossimo valzer delle aggregazioni, senza essere relegata alla parte della Cenerentola. Certo, con la gamba americana, il radicamento italico si è un po’allentato (nel 2003 il gruppo aveva 162mila dipendenti, di cui 73mila in Italia), ma sarebbe stato meglio dar ragione a chi diceva che la Fiat era fallita?