Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2018
Breve storia della Cappella Sistina, una gabbia verso il Divino
L’ha detto e ripetuto: il pittore non è il suo mestiere. Il sepolcro in marmo per papa Giulio II lo farà molto volentieri. Un’opera grandiosa, mai vista prima, a cui lavorare per anni e anni. Ma la Cappella, con il soffitto altissimo, ottocento metri quadri di colore e le figure in scorcio – di quello non se ne parla nemmeno. Quando il pontefice diventa insistente, Michelangelo se ne va da Roma in tutta fretta. Una defezione che a Giulio II non piace per nulla. Con le buone o le cattive il papa fa capire che alla Sistina non può sfuggire, che lo voglia o no. E Michelangelo, a malincuore, s’è piegato.
Il 10 maggio 1508 comincia l’avventura. Continuerà per quattro anni, tra fasi alterne, pause forzate, momenti di disperazione, guizzi di sarcasmo. E tanta, troppa solitudine. Michelangelo non ama farsi vedere. Questo lo sanno tutti. Quando ha scolpito il gigantesco David, a Firenze, s’è nascosto dietro un tavolato, un muro di legno, così che nessuno lo potesse disturbare. Per la Sistina ha però fatto un’eccezione. Troppo vasta l’impresa e nuova per lui la tecnica dell’affresco, per pensare di sobbarcarsi tutto il lavoro. Parsimonioso, pignolo, previdente, già in aprile annota nel suo libro dei conti il costo dei cinque “garzoni” che farà venire da Firenze a Roma affinché lo aiutino. Darà loro venti ducati a testa, sempre che stiano ai patti. Altrimenti potranno tenersi solo metà della cifra, per spese e viaggio, e tanti saluti. Conosce i propri colleghi e non si fida già in partenza, o piuttosto conosce se stesso? Sospetti e riserbo sono tradizionali a casa Buonarroti. Il padre Ludovico, in una lettera inviatagli nei primi mesi dell’impegno alla Sistina, lo esorta a stare sul chi vive: «Abbiti cura e guarda di chi ti fidi e tieni il tuo per te, perché quello che dessi a codeste genti è gittato via».
Per capire l’impresa della Cappella Sistina bisogna innanzitutto immedesimarsi nel carattere diffidente di Michelangelo e nella sua insofferenza. È abituato a controllare ogni minimo dettaglio. A fare e a rifare, a costo di ammazzarsi di fatica e di procurarsi più d’un nemico. A proposito di nemici. Il primo problema è l’impalcatura, che dovrà permettergli di lavorare a venti metri d’altezza. Bramante, grande architetto, molto ben visto alla corte pontificia, ha ideato un ponteggio sorretto da funi. Una specie di veliero sospeso, altissimo e dondolante. Bramante, che gli è rivale, sta poco simpatico al nostro Michelangelo. E ancor meno gli piacciono tutti quei buchi nel soffitto. Come si potranno chiudere, una volta portata a termine la pittura? La prima puntata del dramma della Cappella comincia buttando all’aria il palco bramantesco. Piero Basso, un contadino e falegname di fiducia, arrivato di gran carriera da Settignano, dov’è la casa di famiglia dei Buonarroti, sincarica del rifacimento. Piero ci guadagna, perché dalla gran matassa di cordame, venduta a qualche rigattiere, ricava addirittura abbastanza denaro per pagare la dote a una figliola. Il nuovo ponteggio, ideato da Michelangelo, certo su consiglio dell’amico Giuliano da Sangallo, è tutto in legno. Agli Uffizi resta uno schizzo di questa meraviglia di perizia artigianale, che segue l’andamento della volta, con coppie di capriate poggiate su puntelli ai lati dei finestroni. Lì in cima di spazio ce n’è poco, e fioca è anche la luce.
Dobbiamo immaginarci il grande scorbutico che dipinge con l’aiuto di lanterne chiuse. E soprattutto, lo vediamo piegato in pose innaturali, con il colore che gli cade sul volto. Michelangelo avrà anche un cattivo carattere, ma sa prendersi in giro. Del tormento patito sull’impalcatura si fa beffe in una poesia spiritosa e scoppiettante di autoironia. È una metamorfosi sarcastica in corpo mostruoso, sciancato, rattrappito. Ha la barba rivolta al cielo, sente la nuca sulla gobba, tiene il petto curvo come un’arpia. Col pennello che gocciola sul mento, gli sono entrati i lombi fin dentro la pancia e, per bilanciarsi, sporge il sedere, così da farne una groppa. Si muove a caso, senza poter vedere dove vada. La pelle si tende sul davanti e, per l’inarcatura, gli si raggrinzisce sul di dietro, tanto che si tende come un arco ricurvo all’estremità. Un pittore-gatto, stravolto, stralunato. Nessun artista ha mai sciorinato le proprie difficoltà con altrettanto sarcasmo. E non diresti, nel leggere questi versi, che il pennello che gocciola lavori così spedito, sicuro, grandioso.
Michelangelo soffre, dipinge, non molla. Dopo la costruzione del ponteggio, ha dovuto vedersela con l’intonaco. Anziché il tradizionale impasto fiorentino di calce e sabbia ha usato una miscela di calce e pozzolana, materiale d’origine vulcanica. All’inizio ha però sbagliato le proporzioni, e così l’affresco s’è ammuffito. Il restauro, durato quattordici anni tra il 1980 e il 1994, ha confermato i problemi iniziali con l’intonaco, in alcune zone dell’ebbrezza di Noè, e in particolare nella figura del patriarca in preda al sonno. Ma dopo i primi tentativi, Michelangelo trova le quantità giuste, così che l’affresco della Sistina è, anche dal punto di vista tecnico, il più perfetto del Rinascimento italiano.
E i garzoni? Come c’era da aspettarsi, il Nostro non è per nulla soddisfatto. Non sono abbastanza bravi, o non sufficientemente dediti. Secondo il resoconto del Vasari, un brutto giorno Michelangelo perde la pazienza e li sbatte fuori dal cantiere. Si chiude nella Sistina, e non si lascia vedere nemmeno a casa. Così che quelli, scornati, debbono ritornarsene tutti mogi a Firenze. Si potrebbe pensare a un’esagerazione, se non fosse che, quando, nel 1550, esce a stampa questo racconto, qualcuno di quegli aiuti michelangioleschi è ancora in vita, e avrebbe certo da ridire, se la storiella non fosse vera. Dentro quello stanzone smisurato, in cui continuano a tenersi le cerimonie religiose, il Buonarroti rincorre in segreto il proprio sogno. Rattrappito sul ponte, sfinito, non sa capire se la sua sia una grande ascesa o una caduta nell’abisso, lavora al confine del dubbio e dello scoramento. I suoi pennelli li intinge nella solitudine, ed è per questo che la sua tavolozza si fa via via più fredda, violacea, inimitabile.
L’enorme progetto della Sistina è proteso al futuro. Il tempo che si consuma, tra le cornici architettoniche che organizzano la volta, è quello dell’attesa. Tutti aspettano, talvolta corrucciati, affranti, talaltra impazienti, insofferenti. I troni dei profeti sono troppo piccoli per loro, i nudi si sporgono dai loro sgabelli, si sbilanciano pericolosamente contro le leggi della gravità. Persino i nudi bronzei fanno fatica ad accomodarsi nei loro anfratti. Al centro, nella scena più intensa e rarefatta, le dita di Adamo e del Creatore quasi si toccano. È un “quasi” in cui si misura tutto il genio michelangiolesco. Umano, profondamente terreno e sofferente, e nello stesso tempo “quasi” divino. Se a un uomo è dato di avvicinarsi alla perfezione sovrumana, il mistero è tutto in quel lembo di cielo primordiale, nello iato della creazione di Adamo nella Sistina.
Il 31 ottobre 1512, la Volta della Sistina viene mostrata nel suo fulgore. «Io ò finita la chapella che io dipignievo el Papa resta assai ben sodisfato», scrive laconico Michelangelo a casa. L’impresa è compiuta. Ora può entrare nella storia. Sei milioni contro uno. I visitatori della Cappella Sistina crescono ogni anno. Michelangelo, che la Sistina l’ha dipinta, resta sempre unico, solo. Scontroso, inarrivabile, perennemente insoddisfatto. E grande, il più grande di tutti.