la Repubblica, 29 luglio 2018
Nel gene della rosa il segreto del fiore petaloso
Dietro la parola “petaloso” ci sarebbe una mutazione genetica spontanea, avvenuta chissà quando e chissà come. Se non ha ancora trovato una voce nel vocabolario italiano, la parola inventata due anni fa da un bambino di una scuola elementare emiliana per indicare un fiore con tanti petali ha una controparte precisa nella mappa genetica di alcune piante come la rosa e il pesco. Grazie all’interesse di un giovane studente con la passione dei giardini zen, una ricerca della Statale di Milano ha scoperto che il segreto della moltiplicazione dei petali dipende dall’alterazione naturale di un gene.
Un’informazione che potrebbe consentire, in futuro, di selezionare nuove varietà con le tecnologie tradizionali dell’ibridazione. Dietro la petalosità dei fiori si nasconde Di2, acronimo di un singolo gene che in alcune varietà ornamentali è come se perdesse la bussola provocando una fioritura anomala ma da sempre corteggiata dai vivaisti.
«In natura la rosa e il fiore di pesco hanno massimo cinque petali, – spiega Laura Rossini, docente di genetica agraria all’Università di Milano e coordinatore dello studio appena pubblicato sulla rivista The Plant Journal – ma alcune varietà hanno subito una mutazione naturale di questo gene che ha alterato lo sviluppo del fiore aumentandone il numero dei petali». La scoperta è il risultato di una ricerca di quattro anni nata dalla laurea triennale di Elia Cammarata, iscritto all’ateneo meneghino e con il pallino per il giardino orientale.
«Da quel primo input siamo poi riusciti a isolare Di2, che fa parte di una famiglia di geni che controllano la fisiologia delle piante e specializzati anche nel regolare il numero dei petali», prosegue Rossini.
Questo gene è presente in molte delle Rosacee, un gruppo di piante che conta anche il melo, la fragola e il ciliegio. Nelle varietà selvatiche, il fiore valica di rado la barriera dei cinque petali. In quelle addomesticate possono sbocciare fioriture extra innescate dal gene “impazzito”.
Sono quelle che nel tempo l’uomo ha imparato a selezionare per i giardini. Come la Bella di Monza, una delle prime varietà italiane di rosa ibridata e analizzata dallo studio al quale hanno collaborato anche Stefano Gattolin del Cnr-Ibba e il Ptp Science Park di Lodi. «Si potranno usare queste informazioni per ibridare nuove varietà di rosa, perché, con una semplice analisi molecolare, sarà possibile sapere se nel tipo selezionato per l’incrocio sia attivato o meno il gene della petalosità», aggiunge Gattolin.
«Conoscere le basi biologiche di un comportamento delle piante, come in altri casi, potrebbe consentire la commercializzazione di nuove varietà in tempi abbastanza rapidi rispetto al normale incrocio», spiega Teodoro Cardi, direttore del Centro di ricerca orticultura e florovivaismo del Centro di ricerca alimenti e nutrizione. «Bisognerebbe però ricorrere alle biotecnologie che oggi non si possono utilizzare liberamente. È un limite della regolamentazione che rallenta, anche se non impedisce, questi programmi di ibridazione».