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 2018  luglio 29 Domenica calendario

Intervista a Enrico Ghezzi

C’è una ragione precisa se guardando Enrico Ghezzi viene da immaginare il fotogramma che lo ingabbia. La carrozzella su cui siede fa pensare al carrello cinematografico che con lentezza elusiva realizza il piano sequenza. Enrico è dotato di un pensiero ellittico, trapuntato da uno sguardo miope. A volte si lascia trascinare in profondità insondabili, dalle quali riemerge con delle visioni di cinema, di televisione, di scrittura spiazzanti. L’uomo più "complicato" che io conosca ha vinto il premio dell’associazione Ubu (la consegna è stasera a Bologna). E la nostra conversazione — una delle tante a dire il vero che nel corso degli anni abbiamo fatto, per amicizia, per curiosità, per impegno, non può che partire dal cinema, da quella specialissima "droga" che egli assume come fosse un farmaco. Un po’ veleno, un po’ cura.

Hai mai pensato di scrivere una storia del cinema?
« Potrei scrivere una controstoria rispetto a certi egregi prodotti che circolano».
Di questi quale terresti sul comodino?
«Se non fosse ingombrante la Storia del cinema di Georges Sadoul ».
Mi sorprendi. Testo importante ma molto istituzionale.
«Mica tanto. Dietro allo stile, che comunque denota l’ottimo scrittore, trovi l’occultamento del cinema».
Occultamento?
«Sì, del cadavere cinema. Credo fosse molto più cinefilo di quanto lui stesso sospettasse. A volte lo leggevo arenandomi puntualmente sulla domanda sbagliata: che cosa ho fatto io in questi ultimi anni per meritarmi una tale distesa di parole placide e paffute. E poi, come di improvviso, ho capito che le mani di Sadoul, la sua testa erano quelle del prestigiatore che fa sparire la carta».
Hai mai occultato qualcosa?
«Tutta la mia vita è stata un permanente esercizio di occultamento. Non esistono verità chiare e distinte».
Dove nasci?
«A Lovere, su un lago non lontano da Bergamo».
Pensavo fossi di Genova.
«A Lovere restai fino a sei anni. Fu verso la fine di quel periodo che risale il ricordo della prima inquadratura. Forse un film di Disney, non un cartoon ma dei patrioti che rovesciano sacchi di caffè nel porto di Boston, non ricordo il titolo. Poi ci trasferimmo a Bolzano e infine a Genova, dove ho fatto tutte le scuole, fino alla laurea con Romeo Crippa studioso del Seicento, un uomo molto cattolico».
Che tesi facesti?
«Il titolo doveva essere “Cinema Moralia” poi più prosaicamente venne fuori “Cinema e Moralia”. Era il tentativo di sanare il dissidio tra i francofortesi e i franco-fortini».
Sei un amante dei calembour?
«A volte sono meravigliosi cortocircuiti mentali».
Ti piaceva Adorno?
«Alcune sue cose erano imprescindibili, ma preferivo Benjamin — non quello dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica — e soprattutto ammiravo Siegfried Kracauer e il suo Prima delle cose ultime, un libro folle e bellissimo».
Come sono stati i tuoi anni a Genova?
«Decenti, in una città bellissima segnata da una ricchezza mai esibita. La trovavo più fascinosa di San Francisco che pure le somiglia». 
Tuo padre cosa faceva?
«Dirigeva uno stabilimento siderurgico. Ricordo certe filippiche contro Taranto e Gioia Tauro a suo dire inadatte al ruolo di punta della produzione dell’acciaio. Era colpito dal violento sradicamento sul territorio di migliaia di ulivi. Nel suo cattolicesimo si mostrava persona molto integra».
I rapporti tra voi com’erano?
«Mi piaceva molto quando leggeva a tavola. Spesso erano versi di poeti inglesi: Alfred Tennyson o John Donne. Avevo l’impressione che fosse affascinato da ciò che detestava. Ma con la letteratura si era costruito un mondo parallelo. Nei primi anni Settanta passai due o tre notti all’Isolotto di Don Mazzi e quando tornai a casa lo vidi agitare le chiavi di casa, come dire: dovrei impedirti di rimetterci piede».
Tua madre?
«Una donna più tollerante. Si era laureata con Momigliano e De Robertis con una tesi su Renato Serra. Non riuscì a entrare nell’alveo accademico. Ma comunque insegnò. Credo di aver letto tutti i suoi libri, anche quelli più sbiaditi, come Cassola. Dei quattro figli, due maschi e una femmina, io primogenito, credo fossi il suo preferito».
Non per tuo padre?
«Non lo so. Lui combatteva la propria guerra privata. Quando entrò il televisore in casa mi succedeva di rincasare e trovarlo in piedi con la mano poggiata sul tavolo del salotto. Mentre scorrevano le immagini in bianco e nero, lui bofonchiava: è insensato, insensato, ma cosa fanno! Subiva il fascino di ciò che detestava o che non capiva».
È una sindrome curiosa.
«Neanche tanto. È più diffuso il contrario: coloro che detestano ciò che li affascina».
Alla fine il problema riguarda anche il nostro rapporto con le immagini.
«Mi fai venire in mente uno psichiatra che alla fine dell’Ottocento cominciò a riflettere su alcune reazioni erotiche. A lui si deve la scoperta che porta il suo nome: sindrome di Clérambault. Ricorre in quelle persone convinte che l’altro segretamente le ama e dunque le legittima a proiettare su di lui desideri erotici inconfessabili».
Effetti del genere oggi li chiameremmo "stalkeraggio".
«È il risvolto delirante e predatorio. Ma negli anni Venti, quando Clérambault riflette sui disturbi erotici che ossessionano i pazienti, coglie un aspetto che si può trasferire allo spettatore. Tutto quello che è visibile può diventare una forma di assoggettamento».
Né più né meno che un principio di possessione.
«Che il cinema ha sempre messo in atto tentando di occultarlo».
Mi fai venire in mente il film di Cronenberg "Videodrome".
«Bellissimo, bisognerebbe salvarlo da quelli che vogliono farlo diventare un classico!».
In fondo, anche tu sei un posseduto.
«Sicuramente sono un ossessivo: una forma di ripetizione che non porta a nessun esito. Se esci dall’ossessione o la trasformi in pura energia mentale ti salvi dalla ripetizione. Chi non può uscire dalla sua ossessione è il cinema porno».
In che senso?
«Ha un bisogno profondo della ripetizione e quindi della noia. Altrimenti esploderebbe».
Non pensi di aver dato troppa importanza al cinema?
« Come rimproverare Casanova per aver dato troppa importanza alle donne».
Vuoi dire che la seduzione è stata profonda e permanente?
«Negli anni dell’università vedevo anche tre film al giorno. Un’abitudine che ho coltivato a lungo».
Con quali effetti?
«Il più evidente fu il mio trasferimento a Roma. Avevo vinto il concorso alla Rai nel 1978. Ma la cosa strana è che in quel momento io stavo malissimo. Cinque giorni prima che mi arrivasse il telegramma, dove mi annunciavano dell’assunzione, avevo deciso di suicidarmi per amore. Su di una moto, lanciata lungo l’Aurelia».
Mi ricorda "Il sorpasso" di Risi.
«Erano demoni diversi a guidarci verso la sfida e lo schianto».
Non ti immagino straziato come un giovane Werther.
«Eppure il binomio amore-dolore è stato da subito definitivo».
Cosa intendi?
«Rivela il completo disprezzo per tutte quelle che potremmo chiamare regole del gioco. E annesse ideologie. Il mio atteggiamento non aveva niente di romanticamente definibile, o accertabile sul piano della passione o dell’infelicità. Si trattava di un puro meccanismo di sopravvivenza. Nessuno avrebbe scommesso, neppure io, che in Rai sarei durato più di sei mesi».
E sei lì da più di quarant’anni.
«Ci sono nella perfetta consapevolezza di non esserci. O almeno di non essere il puro e oliato congegno di una struttura. Sono il classico granello di polvere. In questo mi sento molto vicino a Stirner. Che un giovane renano provò a spazzare via».
Ti riferisci a Marx, ai suoi giudizi molto poco lusinghieri su Stirner?
«Sì, ma guarda quanto spazio gli dà ne L’ideologia tedesca. Era ossessionato da Stirner. Sono le ossessioni che ci motivano».
L’ossessione rivela un aspetto religioso, non trovi?
«Rivela la presenza di un fantasma, se lo chiami Dio lo hai già ridotto a un genere letterario. Mi fai venire in mente mia madre».
Perché?
«Un giorno, assistetti a uno scambio di battute tra lei e mio padre. Lui: vado al cinema a vedere Truffaut. Lei: beato te! Pensa, aveva fatto un voto che non sarebbe più andata al cinema per i successivi cinque anni. E questo le pesava tantissimo. Era un voto per la guarigione di mio fratello afflitto da una bruttissima broncopolmonite. Lui guarì e a mia madre toccò alla fine farsi togliere quel divieto».
Come sono i rapporti con i tuoi fratelli?
«Disorganizzati, come la mia vita».
Non credi ai legami di sangue?
«Non mi pongo limiti e non faccio gerarchie. Vige il principio della casualità. Ci pensavo l’altra sera con un certo sgomento: avendo avuto sempre la fortuna di non scegliere con chi stare, mi chiedevo cosa sarebbe accaduto se non avessi più avuto questa libertà».
Stirneriano e un po’ egoista.
«Ma neanche tanto. Sono stato a lungo un boyscout. Dai 14 anni sino alla fine del liceo. Feci l’ultimo campo immediatamente dopo la maturità. Furono anche gli anni in cui la furia del leggere provocò un calo impressionante della vista».
Come hai vissuto e vivi il rapporto con il corpo?
«Attualmente mi vedi, no? Con una certa difficoltà nei movimenti. Più in generale direi che l’ho vissuto con disattenzione. Si tratta di una reazione piuttosto banale al fatto che la mia memoria è polimorfescamente attiva. La disattenzione, anche fisica, è una reazione a questa mostruosità. Il corpo reagisce dimenticandosi di me. Il che mi induce a pensare che alla fine le cose vanno da sole».
Con quali conseguenze?
«Torniamo a quella libertà di cui parlavamo prima. Liberi dalla propria volontà. Del resto, questo è l’orizzonte che sta dietro l’ipotesi di un romanzo che ho chiamato Oro solubile: è la storia di un signore che vuole cancellare tutto e perdere la cognizione delle cose. Ne avevo scritto un intero capitolo che, a proposito di disattenzione, ho perso, dove tutto era declinato con i verbi all’infinito».
“ Oro solubile” come orzo solubile?
«Sono le parole che si sciolgono, c’è questo senso alchemico che, nonostante i secoli, non ci abbandona».
Forse il cinema è l’ultima grande esperienza alchemica.
«Forse ci illudiamo ancora che lo sia».
Che definizione ne daresti?
«È archeologia dell’istante, ma anche l’esperienza più puerile che si possa vivere».
Per questo spesso ne parli fuori sincrono?
«Diciamo che è un espediente brechtiano. Quando mi chiedono perché parlo del cinema in maniera cifrata rispondo che il cinema è troppo semplice perché non induca alla complicazione. Hitchcock sosteneva che il cinema fosse fatto di corpi animali e invidiava coloro che facevano film di animazione».
Cosa ti piace del suo cinema?
«Ha saputo portare l’ambiguità in primo piano senza perdere nulla di quello che l’industria hollywoodiana gli offriva».
È sempre stato il vero problema: fare il film per il produttore o per sé stessi?
«È un falso problema. Il grandissimo Orson Welles lo puoi anche vedere come il più straordinario esecutore di B-Movie».
E Kubrick? Altra tua grande passione.
«Lui è un blocco squadrato. Poteva essere provocatorio e ossessivo, come quando in Shining fece ripetere a Jack Nicholson una scena per 140 volte. Cercava l’evento, l’avvenire dell’immagine. E in quel momento lo realizzò con l’attore più pagato al mondo!».
Hai mai pensato di fare cinema e non limitarti a guardarlo?
«Ho fatto cinema, ma il set perlopiù mi restituisce qualcosa di impraticabile. Ho passato la mia vita a osservare gli altri e ora che sono malato, passo la mia vita a essere osservato».
Ti pesa questa nuova condizione?
«Mi pesa che gli altri pensino che mi pesi. Non è una situazione limite è solo il cambio di un registro. Come nel cinema, anche nella vita la trama è la parte meno rilevante».
Ti sei chiesto perché?
«Da tempo ho voltato le spalle a interrogarmi su di me. Bruciai tutto il carburante dell’autoanalisi tra i 12 e 17 anni. Poi non ho più avuto voglia di guardarmi allo specchio. Non so chi sono. Forse un fotogramma come dici. Preferirei essere un padre del deserto».