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 2018  luglio 29 Domenica calendario

Le (poche) donne protagoniste del Grand Tour

Nata in Inghilterra nel corso del XVII secolo per poi trionfare nel Settecento e diffondersi su scala europea, la prassi di completare l’educazione dei rampolli della nobiltà con un viaggio d’istruzione sul continente prese il nome di Grand Tour. Esso doveva consentire ai futuri esponenti della classe dirigente britannica di studiare dal vivo usi, costumi, istituzioni politiche e metodi di governo degli altri paesi, permettendo loro di intessere rapporti stabili con le élite europee. L’itinerario di viaggio poteva variare ma due mete apparivano ineludibili: la Francia per la sua superiore arte del vivere e l’Italia per il suo patrimonio archeologico e artistico. Tenute lontano dagli studi, relegate nella sfera domestica, le donne non erano ovviamente contemplate. Ciò tuttavia non impedì alle più audaci di viaggiare in proprio e di raccontare le loro esperienze in opere destinate a durare.
La prima a dare l’esempio fu Lady Mary Wortley Montagu (1689-1762). Che non mancasse di ardire lo aveva dimostrato scappando di casa per sposare l’uomo che amava, ma non tardò a dare ugualmente prova di una intelligenza fuori dal comune. Fin dalle lettere da lei inviate dalla Turchia dove, nel 1716, il marito era stato nominato ambasciatore di sua maestà britannica presso la Sublime Porta, Lady Mary si imponeva all’ammirazione per la sua verve di epistolografa e per l’originalità del suo sguardo. Spogliandosi da ogni pregiudizio e con lo spirito d’osservazione di un moderno antropologo, la viaggiatrice rendeva omaggio alla sapienza della civiltà islamica e ritornava in patria con una acquisizione rivoluzionaria: il segreto per debellare il vaiolo. Lei stessa era sopravvissuta per miracolo al terribile flagello che imperversava in Europa e, avendo scoperto che i turchi ne erano immuni grazie alla pratica di inoculazione del virus, aveva fatto vaccinare il figlio bambino e, coadiuvata dalla principessa di Galles, ne aveva diffuso su vasta scala l’impiego. A Londra Lady Mary avrebbe ritrovato l’eccitazione della vita mondana e dell’agone letterario.
Applauditi da Pope, i suoi versi e i suoi canovacci teatrali circolavano di mano in mano dando luogo a polemiche incandescenti, ma a cinquant’anni ella decise di voltare pagina. Aveva perso la testa per Francesco Algarotti, un affascinante e ambizioso poligrafo italiano di vent’anni più giovane di lei e palesemente omosessuale, e nel 1739 si lanciò al suo inseguimento per le strade del Belpaese. Algarotti si rese irraggiungibile ma per Lady Mary era ormai difficile rivenire sui suoi passi e preferì rimanere in Italia, prima nei dintorni di Brescia, poi a Lovere, sul lago d’Iseo, di lì a Padova e, infine, a Venezia, per ritornare a morire in patria dopo vent’anni di assenza. Forte della sua lunga esperienza italiana, invitava la figlia a non prestar fede ai resoconti menzogneri dei viaggiatori inglesi che alla fine del Grand Tour” non tornavano in patria più istruiti di quanto lo sarebbero stati a casa con l’aiuto di una carta geografica”.
Ma nel suo bellissimo epistolario l’Italia resta sullo sfondo: oltre che per i parenti e gli amici lontani, è l’interesse per l’Inghilterra e la sua letteratura a dominare. Nella solitudine di un pittoresco altrove che le permane estraneo, la vecchia signora inglese bastava infatti a sé stessa, coltivando il suo giardino, leggendo, ricordando, meditando. Appagarsi di questi “trastulli” e possedersi saldamente, come ella scriveva alla figlia, era dopo tutto la sola strategia che consentiva alle donne di non soccombere a una società profondamente ingiusta che le condannava all’ozio e all’ignoranza. Le sue non erano parole vane.
È invece il percorso canonico del Grand Tour – Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze e le altre città d’arte fino a Roma – quello di cui dà conto, con cultura e acume, la scrittrice francese Anne- Marie La Page du Boccage ( 1710- 1802) nelle sue pubblicate nel 1770. Arrivata in Italia nel 1757 la du Boccage è, come Lady Montagu – che ha fatto in tempo a incontrare a Venezia – una letterata à la page: può gloriarsi dell’amicizia di Voltaire e dei philosophes e gode fama di essere una eccellente poetessa. Ritroviamo sotto la sua penna i nomi di Algarotti, del cardinale Querini, di Scipione Maffei, come di Horace Walpole e di Lord Chesterfield, e le stesse riflessioni sul talento teatrale degli italiani o sul fenomeno del cicisbeismo. E per quanto singolare esso possa apparire, le due scrittrici concordano nel vedervi un’occasione di libertà offerta alle donne. A differenza di Lady Mary, Madame du Boccage non ha niente di sovversivo e viaggia assieme a un marito a cui è profondamente legata, ma anche le sue lettere mostrano bene come erudizione e intelligenza critica non siano appannaggio esclusivo degli uomini.
È il sopraggiungere dell’” orrendo 1789” a indurre invece Élisabeth Vigée Le Brun (1755-1842), colpevole agli occhi dei rivoluzionari di essere la pittrice prediletta di Maria Antonietta, a lasciare precipitosamente la Francia assieme alla figlia di appena nove anni e ad attraversare le Alpi. Il viaggio in Italia sarà per lei solo la prima tappa di un lungo viaggio attraverso l’Europa, tuttavia quest’esilio forzato le consentirà di realizzare un vecchio sogno. Anche lei potrà finalmente visitare il Belpaese e studiare dal vero i capolavori dei grandi maestri, colmando le lacune di quella formazione da autodidatta che non le avevano impedito di diventare la ritrattista più famosa e più pagata di Francia.
Giustamente celebri, le molte pagine dei suoi Souvenirs consacrate al soggiorno italiano sono una testimonianza storica di grande interesse sulla vita sociale e artistica del nostro paese. Di città in città, tutti fanno infatti a gara per festeggiare la ritrattista di Maria Antonietta, le accademie di pittura le aprono le porte – quella romana di San Luca ospita a tutt’oggi un suo splendido autoritratto –, e le commissioni fioccano. Senza più il marito alle spalle, l’artista è costretta a farsi imprenditrice di sé stessa e supera brillantemente la prova.
A Napoli, per fare un solo esempio, Élisabeth è chiamata a ritrarre la regina Maria Carolina e i suoi figli e a immortalare, dopo Romney, la bellezza istrionica di Lady Hamilton, ma vuole anche rendere un vibrante omaggio al genio musicale di Paisiello. Il ricordo di questi incontri, intrecciato a quello dell’emozione suscitata dal paesaggio italiano, dalle sue luci, dai suoi colori, dai suoi profumi, fanno dei Souvenirs un tassello prezioso di quell’Italia dei viaggiatori che, scomparsa da tempo, è entrata a fare parte stabile del nostro immaginario collettivo.
Madame de Staël (1766-1817) avrebbe fatto ancora di più. Era stata ugualmente una ragione politica a indurre la più geniale scrittrice del tempo a venire in Italia. Da quando Napoleone l’aveva esiliata in Svizzera, viaggiare – attività che aveva sempre detestato – era diventata per lei una esigenza vitale. Così, dopo avere visitato la Germania, Mme de Staël aveva, nel dicembre del 1804, varcato il Moncenisio in compagnia di August Wilhelm Schlegel e dei suoi tre figli. Raccolto per via anche l’amico Sismondo de Sismondi – proprio allora intento a lavorare alla sua Storia delle repubbliche italiane —, ella avrebbe percorso l’itinerario classico del Grand Tour riguadagnando la Svizzera a metà del giugno successivo. Nel corso di questi cinque mesi, la scrittrice ebbe modo di riscontrare quanto le sue prime impressioni sull’arretratezza del paese che andava visitando fossero fondate, eppure questo non le impedì di cambiare il suo giudizio di fondo. Possiamo ricostruire, sul filo dei suoi quaderni di viaggio, come le letture, gli incontri, le cose viste contribuirono infatti a suggerirle un nuovo modo di guardare alla realtà italiana.
Ma è in Corinna o l’Italia, il grande libro scritto al suo rientro a Coppet, che Mme de Staël ribaltava l’immagine canonica di un paese” indolente”, senza futuro, schiacciato sotto il peso di un passato troppo grande, di cui Chateaubriand aveva appena celebrato il fascino cimiteriale nella Lettera sulla campagna romana ( 1804). Per lei, infatti, l’Italia non era solo un paese di morti, di rovine, di musei, di ricordi, ma una “promessa di vita”, e affidava a Corinna, l’eroina eponima del suo romanzo, il compito di annunciare agli italiani la rinascita politica e morale della loro nazione, una e indivisibile. Un messaggio che non ha certo perso di attualità.