Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  luglio 29 Domenica calendario

Da Goethe a Piovene via Henry James: i viaggi dei grandi scrittori in Italia

«Parto dall’estremo nord, con l’intento di scendere fino a Pantelleria regione per regione, provincia per provincia. Sono curioso dell’Italia, degli italiani e di me stesso; cosa ne uscirà non saprei anticiparlo». Così scriveva Guido Piovene nel ’ 53 nel suo personale Viaggio in Italia, la raccolta dei suoi reportage letterari per la Rai su e giù per il Belpaese. Un viaggio che in parte ricalca quello che, due secoli prima, realizzò e poi raccontò Goethe, grande protagonista di una tradizione che dai rampolli delle nobili famiglie settecentesche ha continuato a esercitare il suo fascino sino a noi. «Eccomi qui tranquillo e placato per tutta la vita», confessa l’autore di Werther e poi di Faust quando nel 1786 arriva nel nostro Paese,” giacché si può dire davvero che abbia inizio una nuova vita quando si vedono coi propri occhi tante cose che in parte già si conoscevano minutamente in ispirito”. Ma oggi? Ha ancora senso parlare di viaggio sulle orme dei grandi per nutrire lo spirito?
«La sorpresa che ho avuto scrivendo il mio ultimo libro», racconta Attilio Brilli, uno dei più grandi esperti di letteratura di viaggio, che per Il Mulino ha appena pubblicato Gli ultimi viaggiatori nell’Italia del Novecento, «è che malgrado le due guerre, malgrado il Ventennio fascista, il viaggio in Italia ha mantenuto il suo fascino e la sua durata. Chi non è venuto in Italia nel Novecento? Ma la cosa interessante è che in molti casi il viaggio è stato programmato alla vecchia maniera, percorrendo, magari in momenti diversi e a più riprese, tutta la penisola. Se ci sono cambiamenti questi sono soprattutto nella ricerca di itinerari secondari: ciò non toglie che si visitino gli Uffizi o la Venere Capitolina, ma subentra la ricerca di percorsi meno scontati. Mi ha stupito un viaggiatore inglese, un italianista, Jonathan Keates, che a fine Novecento scopre con entusiasmo la Val Nerina, quei paesi che oggi sono stati martoriati dal terremoto: e lungo la Val Nerina, a Ferentillo, trova tre mummie cinesi. Cosa ci fanno tre cinesi nella Val Nerina tra il Sette e l’Ottocento?, si chiede. Probabilmente sono morti durante il viaggio, forse per il colera che allora infestava la zona. E vede in questo una sorta di rovescio di Marco Polo». Ecco allora cosa si cerca oggi: quell’altra Italia, secondaria, nascosta o comunque trascurata dai viaggiatori di una volta. «Oggi viaggiamo sulle pagine di chi ci ha preceduto: si ripercorre il Paese cogliendo le differenze, talvolta profonde. Non è detto che bisogna rifare il viaggio di Goethe». O di Stendhal. O di Madame de Staël. Per questo, in Viaggio in Italia. Itinerari letterari da Nord a Sud di Marialaura Simeone, uscito ora per Franco Cesati Editore, ricco di aneddoti, annotazioni e citazioni, accanto alle passeggiate romane di Goethe c’è l’Irpinia di Franco Arminio.
Ma chi sono questi ultimi viaggiatori? Brilli non si è risparmiato nel fare nomi. Per esempio Henry James: Italian Hours ( Ore italiane) è un vero e proprio taccuino del suo mal d’Italia, frutto di ripetuti viaggi nel nostro Paese. «C’è poi un pittore inglese, Walter Tyndale, che quando arriva a Siena nel 1912 mentre ammira le acquasantiere del Duomo scopre che in quegli anni giravano ben altri tipi di viaggiatori. Uno di questi era Pierponto Morgano. Chi era costui?, si chiede Tyndale. Forse un capitano di ventura? Capitano sì, ma di industria e di finanza: era Pierpont Morgan, della Morgan Stanley, che è stato un gran razziatore». Nel Novecento però cambiano anche i mezzi per viaggiare, e cambia la percezione del paesaggio. «Una delle prime ad accorgersene», continua Brilli, «è Edith Wharton», l’autrice dell’Età dell’innocenza, con cui nel 1921 vince il Pulitzer. «Proprio lei nei suoi Scenari italiani,raccontando gli spostamenti ora in carrozza, ora in treno, ora in automobile, avverte questa mancanza di presa diretta con la terra che dà il viaggio in auto: mi permette di muovermi velocemente da un posto all’altro ma talvolta ho quasi la sensazione di non esserci stata».
La velocità, appunto. Ma che senso ha parlare di Grand Tour al tempo di internet e dei social? Brilli non è il solo ad affermare che «online non si impara niente, il viaggio va fatto calpestando le orme di chi ci ha preceduto. Così facciamo un doppio viaggio: nello spazio, ma anche nel tempo perché percepiamo due luoghi, due opere d’arte, quello che ha visto il viaggiatore di ieri, dell’altro ieri, del Seicento, e quel che vedo io oggi. Questa visione sdoppiata internet non la dà assolutamente: me la devo costruire io, è figlia delle mie letture. Così imparerò ad andare ad Assisi in inverno, non d’estate, perché è inutile andarci per essere travolto dalla gente. E a Venezia quando c’è l’acqua alta soffrendo, perché il viaggiatore deve soffrire, se non soffre che se ne stia a casa tranquillamente. Si bagni le gambe, buchi pure le gomme dell’auto. Il viaggio è una conquista, se è spiattellato in internet non serve». Non la pensa diversamente Marco Aime, che da antropologo ha analizzato il tema in Sensi di viaggio (Ponte alle Grazie) e nel saggio L’incontro mancato (Bollati Boringhieri): «La Rete, nonostante simuli nel linguaggio e utilizzi un lessico che è quello della geografia, pensiamo solo al navigare, non ha nulla a che vedere col viaggio. Questo è esperienza fisica non solo mentale, che attiva tutti i sensi: l’olfatto, l’udito, il tatto, è un’esperienza basata sull’empatia, sull’incontro, non una simulazione. Quindi oggi ha quanto mai senso; il resto è un surrogato. In particolare, il viaggio in Italia ha senso se si è capaci da un lato di capire la bravura di chi l’ha fatto prima, dall’altro di leggere le trasformazioni di una realtà rispetto all’epoca in cui il viaggio è stato fatto da questi personaggi illustri. Allora può essere interessante ritornare sul luogo dove è stato qualche scrittore del passato e vedere quanto è rimasto e quanto non c’è più. Oggi abbiamo informazioni che nel Sette- Ottocento non avevano, soprattutto abbiamo le immagini. Il viaggio allora più che scoperta diventa verifica: si va a vedere se quel posto coincide con l’immaginario che ci siamo creati prima ancora di partire. Certo, questo poi può portare anche delusione...».
Già in Tristi tropici (1955), Lévi-Strauss aveva prefigurato la fine del viaggio. «E per un verso ha ragione», assicura Brilli. «In questo caso, quel viaggio che abbiamo perduto può essere recuperato attraverso la memoria e le pagine di chi mi ha preceduto. Lévi- Strauss parla però da antropologo, quei popoli primitivi che visitava nell’Amazzonia certo che non esistono più, quei viaggi sono irrecuperabili. Ma i viaggi sono finiti e non sono finiti: continuano perché quel che conta, diceva José Saramago, è il viaggiatore, l’animo del viaggiatore, la capacità di scoprire nelle pieghe dell’ovvio qualche cosa di affascinante. Sempre Jonathan Keates ammette di essere rimasto incantato dalla Val Padana, luoghi che nessun italiano oggi apprezzerebbe, eppure là c’è un senso della storia italiana». Ma il viaggio era e resta anche scoperta di sé, meglio ancora capacità di cogliere il diverso. «E anche una grande scuola di tolleranza», conclude Brilli, «che insegna a non inalberarsi o stupirsi del diverso. In questo senso viaggiare è esercizio, è fatica, anche sofferenza. Una sorta di ouverture, di preludio al viaggio della vita».