La Lettura, 29 luglio 2018
Diario da Avignone. Meraviglie di un altro circo
Lunedì 16 luglioStasera ho visto Iphigénie. Scrivo di notte. Arrivare e uscire da Avignone è un problema. Non succede così solo in Italia, o a Roma. L’anno scorso era la stessa cosa, si sta costruendo una linea tramviaria che circonda le mura, piazzare la macchina in uno dei sette o otto parcheggi è sempre più difficile. Di fatto per arrivare da Saint-Rémy, diciotto chilometri, non meno di un’ora. Ma Racine mi tiene occupata la mente.
Amo Racine più di ogni altro, lo vedo troppo poco. In lingua credo sia la seconda volta, la prima fu la Phèdre di Patrice Chéreau a Parigi nel 2003, uno spettacolo memorabile. Lo era anche l’Andromaca di Donnellan a Torino, non ricordo l’anno: ma aveva i sottotitoli. Non lo erano i due o tre Racine che ho visto in Italia: né lo è, purtroppo, l’Iphigénie di Chloé Dabert, una giovane regista emergente. Dabert dice di avere in testa Iphigénie dagli anni dell’adolescenza e più avanti, nella stessa intervista, di essersi concentrata sul ritmo e sulla punteggiatura. Dice anche di avere un «rapporto quasi matematico con la scrittura, con la cadenza» del verso alessandrino. Sarà anche vero, ma non si percepisce un granché. Al contrario il suo spettacolo sembra buttato lì, privo di qualsivoglia punto di vista. Basta pensare alla scena e ai costumi.
La scena del Cloître des Carmes ha sulla sinistra degli alti e inutili sterpi, sulla destra una specie di torre fatta di scale che si succedono curva dopo curva, altrettanto inutile e poco significativa. Dei costumi c’è poco da dire. Siamo in un campo militare, in riva al mare, in attesa che si alzi il vento. La flotta dei greci deve partire alla volta di Troia. Perché ciò accada Agamennone è costretto a sacrificare Ifigenia. Lui ha un cappotto. Ulisse e Achille non si capisce bene se i loro abiti sono da guerra ventura o da stallo. Clitennestra ha scarpe con il tacco alto, da signora. Ifigenia e Erifile gli scarponcini che usano le ragazze di oggi. Ma insomma, nulla che qualifichi con chiarezza e coerenza. In quanto alla recitazione, capitolo fondamentale, ho sentito solo esclamazioni e finali di verso accentuati come ci si aspetta, alzando le voci. Da un certo punto in poi ho seguito la storia sul testo, come si faceva un tempo all’opera – quando non c’erano i sottotitoli.
La storia, dunque. Cioè Racine. Tra i suoi innumerevoli lettori ho scelto Karl Vossler, il grande dantista. Ma il suo Racine, un libro tradotto da Guanda nel 1942, è un bel libro. Per Vossler, Racine non aveva un carattere forte, ma «una natura incalcolabilmente profonda», e diplomatica, cercava sempre una mediazione. Era figlio di Port-Royal, il suo giansenismo, la sua «naturale» intransigenza, erano temperati da una specie di volontà di eludere prima di tutto sé stesso, poi da una vocazione a essere flessibile, da una certa femminilità.
L’oggetto drammatico del suo teatro, per Vossler, è sempre, in qualche modo, l’insuccesso. Non aveva alcun interesse a creare personaggi, come Shakespeare; era quasi una rinuncia. La rinuncia è per Racine la meta spirituale cui è destinata l’umanità. Si vede con chiarezza proprio nel personaggio di Ifigenia. Ma nella tragedia (e in parte commedia) il colpo di genio è innanzitutto di aver scelto di riscrivere, di Euripide, non Ifigenia in Tauride ma Ifigenia in Aulide. In questa, nel finale, il sacrificio cui la protagonista è destinata, viene evitato per intercessione degli dèi: Ifigenia sarà sostituita da una cerva. In Racine la cerva è Erifile.
Chi è Erifile? È una preda di guerra di Achille, vale a dire dell’uomo destinato a sposare Ifigenia. L’una e l’altra sono di lui innamorate. Anche Achille lo è, benché nei confronti di Erifile non sia così chiaro. Allo stesso modo, Ifigenia ama suo padre Agamennone, che dal profeta Calcante (cioè un’entità superiore) è chiamato a sacrificare la figlia se vuole che le navi partano per Troia. E, inutile dirlo, Agamennone, il padre, ama la figlia. Ai due estremi vi sono Ulisse e Clitennestra. Solo loro non sono mai incerti. Ulisse sa e vuole che il sacrificio sia compiuto. Clitennestra, la madre, non lo vuole.
Ciò che tocca in Racine (ciò che mi ha turbato, nella musica ipnotica dei suoi alessandrini) è la fluttuazione incessante di chi sta in mezzo, tra l’inflessibilità di Ulisse e Clitennestra: la straordinaria vocazione dell’autore a mantenere in equilibrio l’oscillazione dei sentimenti di tutti gli altri. Almeno finché Erifile, la «portatrice di discordia» dice il suo nome, non decide di uscire allo scoperto e di urlare ai greci che Ifigenia non la si vuole sacrificare. Colpita allora sarà proprio lei, che della protagonista è quasi un doppio, la faccia oscura, «colpevole»: il che, per Vossler, equivale tuttavia a un vero suicidio più che a una orribile denuncia della rivale che le era amica.
Martedì 17 luglioCapitolo Ivo van Hove, ossia il nome più prestigioso in programma. E, a proposito di Clitennestra, al Lycée Saint-Joseph egli presenta, è lui stesso a dirlo, una specie di tragedia greca attraverso Les choses qui passent, titolo francese del romanzo dello sconosciuto scrittore olandese Louis Couperus, vissuto tra Ottocento e inizio Novecento. Il romanzo è del 1906. Ne posso ricostruire gli elementi essenziali attraverso la genealogia della famiglia di cui ci parla. Sono in scena tre generazioni. I quasi centenari Ottilie e il suo amante Takma: Ottilie è la Clitennestra del caso, ha ucciso il marito, e Takma (vivevano in India) è ricco. Lascerà la propria eredità a Ottilie II, probabilmente figlia sua, e a Ina, nipote di Ottilie I. A tredici anni Harold, figlio della nostra Clitennestra e padre di Ina, aveva assistito all’assassinio del padre e sempre aveva taciuto.
Ma la vecchia ha altri tre figli, uno è da poco tornato dalle Indie, Anton è un pedofilo e Thérèse da trent’anni (anche lei sa) prega per la salvezza dell’anima di sua madre. Ottilie II aveva un marito da vent’anni, minore di lei di dieci: alla morte dei genitori costui la lascia.
Centrale, cioè attuale, è Lot: assistiamo alle sue nozze «sensuali» con Elly. È una scena raccapricciante. I due non si amano, o forse Lot è frigido. I personaggi sono tutti vestiti di nero. Elly e Lot si spogliano completamente (però hanno sulla schiena le macchinette dei microfoni). Lot cosparge gli organi genitali suoi e della moglie di panna montata, non so perché. Non succede niente. I due si rivestono e cominciano ad aspettare la morte come tutti gli altri. È il tema del romanzo e dello spettacolo: un atroce orologio scandisce il tempo. Le conversazioni (loro tema sempre il tempo della morte che sta venendo) avvengono in una grande sala vuota, una specie di «limbo o di purgatorio», in fondo alla quale un enorme specchio riflette noi spettatori, mentre gli attori siedono su due file di sedie che delimitano i lati verticali. Che dirne? Un bello spettacolo. Uno spettacolo elegante e freddo. Uno spettacolo di cui a me non importava nulla, tranne la voce di Nina Simone quando canta Wild is the wind. Pensando a Les Damnés di due anni fa, Ivo van Hove è un regista normale, dotato di idee e di denaro.
Mercoledì 18 luglioDopo quella scarna, maiuscola prova che fu I bassifondi di Maksim Gorkij, ecco Oskaras Koršunovas, di nuovo in azione, con Tartufo di Molière: uno spettacolo, al contrario, sfarzoso specie nella sorprendente scenografia, un labirinto di siepi – benché nella commedia labirinti non ve ne siano, di alcun genere. Non vi è che l’inganno del miserabile protagonista, l’ipocrita per antonomasia. Ma a parte le molteplici ingegnosità della regia – padre e figlia si riprendono e deformano in video tramite lo stesso cellulare; come nell’appena visto Gosselin («la Lettura» #347 del 22 luglio) un cameraman proietta su uno schermo le immagini dei protagonisti; essi entrano ed escono direttamente non di scena ma dal teatro stesso – non vi sono che le belle immagini delle seduzioni vere e fittizie tra Tartufo e la moglie del suo ospite e lo stravolgimento del testo, una modesta morale della favola.
Tutti noi a furia di guardare/vivere performance non viviamo più; e non vivendo permettiamo all’ipocrita non di essere smascherato, come in Molière, ma di ingannarci tutti: è in fondo la morale dei social, il luogo istituzionale che dell’ipocrisia ha fatto la struttura comunitaria in cui viviamo.
Giovedì 19 luglioMa volevo chiudere in bellezza. Speravo che accadesse. È accaduto. Sono tornato all’Île de Piot, che è lì, in mezzo al Rodano. C’è quella parte dell’Off dedicata al teatro circense. Ho di nuovo visto Lexicon; e avevo già ammirato Flown e soprattutto Le Nouveau Monde di Julie Denisse, interprete Gilles Cailleau. Il circo come lo abbiamo in testa non c’entra. Due momenti meravigliosi. Cailleau chiama dal pubblico una bambina, costruisce con lei un mare: è una tavola lunga. Sulla tavola c’è una nave e sulla nave ci sono uomini (pupazzi). Gli uomini uno alla volta cadono giù. Quando la nave sta per arrivare all’altro capo della tavola l’approdo viene proibito.
La seconda scena, finale, coinvolge tutto il pubblico. Chi vuole rispondere alla domanda «Di che hai paura?» accende la luce del suo cellulare e dice qualcosa. Rispondono in dieci, in venti, in cento. «Ho paura di non vedere i miei nipotini». «Ho paura di morire». «Ho paura di non accorgermi di morire». «Ho paura di non aver vissuto». «Ho paura di non conoscere la gioia».
In quanto a Lexicon dirò soltanto che, strano a raccontarsi, del gruppo inglese NoFit State Circus è regista un’italiana, Firenza Guidi. Si è laureata a Milano, con Nemi d’Agostino. Abbiamo rievocato i comuni maestri di inglese, Giorgio Melchiori e Agostino Lombardo. Come la Guidi sia arrivata al circo non ho capito. Ma ha un eccezionale compositore in David Murray e un gruppo di attori, musicisti e cantanti che ci commuovono a ogni scena: dalla tradizionale, quando quel giovanotto così scanzonato fa il pazzo su una bici a una ruota sola (ci si spoglia e riveste pedalando), all’inedita, quando i due innamorati si incontrano e uno fa con il corpo dell’altro ciò che tutti facciamo ma nessuno di noi può e sa fare: lanciare in aria, riprendere al volo, abbracciarsi senza toccare terra mentre quella bianca gonna si apre e chiude e riapre come per dare luce alla felicità.