La Stampa, 28 luglio 2018
Flavio Giurato: «Oggi dobbiamo stare attenti al ministro dell’Interno che è in noi»
Ora farò una migrazione linguistica per reagire a quello che stiamo vivendo». Flavio Giurato, il più amato e carsico dei cantautori nazionali sconosciuti, lo dice tranquillo con la sua voce profonda, sicuro che non vi sia alternativa. «È necessario internazionalizzarci per scostarci il più possibile dal baratro del provincialismo e dell’indifferenza in cui stiamo cadendo», concede. La scelta è produrre un lavoro in inglese, dopo tre vinili e tre cd pubblicati in 40 anni. «Voglio abbandonare la canzone d’autore, smettere di essere il pirla, il bischero o il citrullo (fate voi col vostro dialetto!) che scrive musica e parole e va in pubblico a suonarle; la lingua inglese è lo strumento per entrare in una nuova fase».
Il tratto caratteristico di Giurato è anche quello di seminare progetti a mani piene nonostante l’adolescenza ormai lontana: nuovi album, libri, film e un’opera rock. «Essere “cult” vuol dire vendere poco», ammette. Romano e romanista, classe 1948, appassionato di baseball, vocazione internazionale per Dna, fratello di fratelli eminenti, chitarrista col tarlo delle Rickenbacker, ha esordito nel 1978 con Per futili motivi, intenso come Il tuffatore dell’82. Dopo un silenzio di 23 anni, è tornato nel 2007 a fare musica, riprendendo fra l’altro le trame incerte della storia di Ettore Maiorana. Le promesse del mondo, uscito in ottobre, sventra le migrazioni, rifiuta le etichette, si propone di essere «vero», è diretto, duro a tratti, ricco di parole e immagini che toccano cuore e testa, declinate in più idiomi e con suoni quasi «indie», soprattutto sul palcoscenico. «La migrazione non è solo quella dei barconi - precisa -, è pure un viaggio all’interno di sé stessi».
Ha scritto di gente che affoga e di marinai che la salvano. È cambiato qualcosa in un anno?
«Sto con Marshall McLuhan quando diceva: “Bisogna staccare la spina”. Ogni giorno ci svegliamo e troviamo il rendiconto di ciò che ha detto l’inquilino del Viminale, sempre chiamato per nome e cognome. È avvilente. Torna in mente una vignetta di Altan: “Tutto sotto controllo, ma non si sa di chi”. Le cose sono cambiate, certo, dall’uscita del disco: la preoccupazione per la sorte tragica dei migranti è diventata la preoccupazione per la possibile sorte tragica nostra».
È un destino di provincialismo e indifferenza?
«Sulla copertina di Le promesse del mondo c’è una barca capovolta. A bordo c’era gente che stava morendo o è morta. È il simbolo del loro naufragio e del nostro. Dobbiamo stare attenti al ministro dell’Interno che è dentro di noi. Sorvegliarlo, cercare di aiutarlo».
Basterà un disco in inglese?
«Anche. Voglio smetterla col parlare pensando alle frasi che piaceranno, legate solo a ottenere consenso e gradimento».
Come se lo immagina?
«Si chiamerà Recent Happenings. È una striscia di canzoni con cui vado a cercare un mercato e un pubblico in Europa. So che non è semplice. Ma la piccola macchina del suono con cui sono andato in giro in questi mesi calzerebbe bene a un festival a Barcellona, Newcastle o Amburgo. Il disco avrà l’impatto degli spettacoli dal vivo. Saremo tutti insieme senza metronomo».
Riproporrà il senso d’urgenza di tutti i suoi lavori?
«Sarà più libero. L’urgenza è vedere se con una platea diversa cambia il risultato».
Tutto è viaggio, per lei. Come quando ha pubblicato «Marco Polo» nel 1984. Cosa le piace dell’eroe veneziano?
«Ha lo stesso animo di Lawrence che va in Arabia. È l’uomo che crea il punto di incontro fra due culture, quella orientale e quella occidentale. Sogno che a scuola si faccia Tai Chi invece che la pallavolo. Avevo cominciato a scrivere un libro su Marco Polo».
Poi?
«La figura del cantautore che fa il libro mi faceva orrore e ho pensato di trasformarlo in radiodramma. Lo finirò in fretta. Penso di offrirlo alla Rai, a Radio 1, il mio canale di riferimento. Lo posso pubblicare anche da solo, in cd. Magari vinco il Premio Italia!».
E l’opera rock?
«Una cosa alla Lloyd Webber sul tema dell’Invasione declinata in più tempi e azioni diverse. Partirà con Giulio Cesare, figura in cui riconosco un maestro di scrittura, che parte da Anzio e va in Britannia, la flotta fermata dalla bonaccia e loro che dipingono di nero le vele perché non si vedano. Quando le teste di cuoio con le facce dipinte sbarcano, trovano le maestre a scuola con i ragazzini. Ci sarà da divertirsi. Ho tanti tavoli aperti. Non corro il rischio di annoiarmi».
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