La Stampa, 28 luglio 2018
Quando decrescere è un dogma
Soprattutto fa impressione vedere la nuova filosofia di governo applicata da Roma, e per Roma. Cioè la città che fondò la sua grandezza e salì alla gloria del mondo per le grandi opere, prima ancora che per l’arte della guerra. I romani realizzarono centomila chilometri di strade lastricate e centocinquantamila chilometri di strade in terra battuta, pari a trecentotrenta autostrade del sole, una specie di web fisico che connetteva tutte le terre dell’Impero. Nell’Urbe al massimo dei fasti arrivavano ogni giorno 750 milioni di litri di acqua potabile, grazie a un sistema d’acquedotti lungo quattrocentoventi chilometri. Ignoriamo se allora qualcuno si lamentasse per l’impatto ambientale.
La Cloaca Massima, che ripulì la città dagli escrementi, fu una delle prime grandi opere pubbliche e funziona ancora, dopo venticinque secoli. I romani (quelli antichi, però) sapevano che senza grandi opere non c’è sviluppo, e senza sviluppo non si fanno nemmeno le opere piccole. Senza strade, senza acqua, senza fogne, Roma sarebbe rimasta un villaggio, non ci sarebbero stati commerci né botteghe, né le insulae, che erano condomini di pietra per la plebe, non un lusso sfrenato, ma molto, molto meglio delle capanne che erano le periferie del tempo.
Un paio di millenni dopo, la stessa Roma (sempre più micragnosa) produce per sé e per il resto del Paese politiche opposte. L’ultimo passo, per ora, è la croce sulla Tav, il treno ad alta velocità per persone e merci da Torino a Lione, un asse di interscambi da 173 miliardi di euro, secondo il commissario di governo che chiede disperatamente al ministro Danilo Toninelli di ripensarci. Anche i «barbari» della Lega cercano di resistere e con vigore, infiammando però la competizione fra i leader, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ormai spietata e preoccupante. Perché non è più soltanto una (triste) questione romana, dove Virginia Raggi ha rifiutato l’organizzazione delle Olimpiadi per evitare che qualcuno ci rubasse sopra (avevamo capito che i cinque stelle promettessero di annullare la corruzione, non gli appalti), e successivamente nell’idea che comunque erano soldi buttati, e al popolo serviva ben altro: e che fosse questo «ben altro» è rimasto ignoto. Non vorremmo diventare tediosi col parallelo ma, se al posto di Vespasiano fosse stata imperatrice Virginia, oggi invece del Colosseo, che continua a portare denari e posti di lavoro, ci sarebbe un laghetto con le paperelle. Con lo stadio della Roma non è andata meglio, adesso è fermo per questioni giudiziarie, ma già amputato delle torri di Libeskind per la santa guerra alla cementificazione, termine in prossimità di turpiloquio, sebbene le città più vitali d’Europa, da Milano a Londra, continuino a tirare su palazzi e grattacieli, dove si ospitano multinazionali – altra parolaccia – che assumono ed elargiscono stipendi.
Ora la decrescita felice diventa programma nazionale e si infila nei territori della Lega. Dopo la Tav toccherà al Terzo valico, il collegamento ferroviario fra il porto di Genova e Tortona, e da lì verso il Nord Italia e il resto d’Europa; sarà bloccato, si ammodernerà la linea esistente. Su Ilva c’è la confusione che sapete, ovviamente figlia del vecchio progetto grillino di bonificare e chiudere. La Tap (il gasdotto che arriva dall’Azerbaigian) toccherà farla ma soltanto perché è troppo complicato e oneroso abbandonarla, sennò andrebbe a farsi benedire pure quella. Poi ci sono le due pedemontane, l’autostrada Orte-Mestre, qualche bretella, tutta roba inutile, pare. Quello che abbiamo è più che sufficiente, dicono. Che poi è sempre stata la facile e un po’ facilona giustificazione di chi ha paura di andare avanti. Per fortuna sua l’antica Roma non la pensava così e per nostra fortuna non la pensa così il mondo, che da sempre procede, si collega, si velocizza, si arricchisce. Difficile pensare che la Lega resterà a guardare, difficile escludere che non ne uscirà un terribile guaio.