La Stampa, 28 luglio 2018
L’Italia dorme su un letto di bombe inesplose
Sono sotto le periferie delle nostre città, nella profondità dei laghi e dei mari dove facciamo il bagno o nelle sperdute campagne dove andiamo per una gita fuori porta. In Italia ci sono almeno 25 mila bombe ancora inesplose, una ogni 2400 italiani. Sono quello che resta di oltre 1 milione di ordigni militari sganciati durante le due guerre mondiali nel nostro Paese. Circa il 10% delle oltre 378 mila tonnellate gettate dalle aviazioni (Raf e Usaf su tutte) non è mai esploso per difetti di fabbricazione o per condizioni ambientali sfavorevoli. Sono ordigni pronti al funzionamento, la cui instabilità è aggravata dal tempo e dal clima che ne rendono imprevedibile il comportamento e la reazione a fattori esterni. E «dormono» ancora nel nostro sottosuolo.
Dove si trovano
«Non esiste un posto in Italia dove possiamo dire con certezza che non ci sia stato un bombardamento», dice Giovanni Lafirenze, ex artificiere e membro dell’ Associazione nazionale vittime civili di guerra. Dall’area di confine tra il Lazio,l’Abruzzo e il Molise alla costa Anzio-Salerno fino alla zona alpina del Trentino e Friuli Venezia Giulia. Ma anche nella periferie delle grandi città come Roma, Napoli, Milano, Torino, Genova, Bologna. «E nessuno parla mai delle bombe chimiche caricate con gas asfissianti e urticanti della prima guerra mondiale. Senza contare le possibili bombe interrate dai nazisti dopo l’8 settembre o le migliaia di granate e bombe a mano inesplose durante la guerra civile tra i partigiani e le truppe della Repubblica di Salò», conclude Lafirenze.
La prima bonifica
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale quel che rimaneva dell’esercito italiano ha cercato di bonificare il più possibile la superficie del terreno da bombe, granate e campi minati presenti nel nostro Paese. Dal 1946 all’ottobre del 1948 sono diminuite le enormi percentuali iniziali. Ma sono rimasti gli ordigni bellici in profondità, scoperti a poco a poco con l’espansione delle città verso le campagne e i lavori delle aziende agricole dotate di mezzi di scavo sempre più efficienti. E se si trovano queste armi, c’è il rischio di farsi male. Il 16 febbraio un 59enne è morto in una palazzina, zona San Ruffillo nella periferia di Bologna dopo aver maneggiato un ordigno bellico nella sua cantina.
E non è l’unico caso: il 5 ottobre del 2017, un 56enne collezionista delle armi della Grande guerra è morto a Fonzaso (Belluno), dopo aver inavvertitamente fatto esplodere un ordigno che teneva in casa. Mentre il 26 agosto del 2017 un 35enne milanese in vacanza in Val Camonica è morto per l’esplosione di un ordigno trovato durante una passeggiata. «Ci sono due miti da sfatare sui residuati bellici – dice Roberto Serio, segretario generale dell’Associazione nazionale vittime civili di guerra – che sia difficile trovarle e che siano innocue. Per questo cerchiamo di informare gli studenti nelle scuole sui possibili rischi».
A salvarci dalle possibili esplosioni e a bonificare a poco a poco il terreno del Belpaese ci pensa l’Esercito italiano con un lavoro meticoloso, continuo e spesso ignorato dai mass media. Ogni anno gli operatori dell’esercito fanno brillare in media 3000 ordigni, circa 8 al giorno. Un lavoro complesso che possono fare solo gli operatori cmd (acronimo per Conventional Munitions Disposal ovvero bonifica da ordigni convenzionali): circa 100 persone altamente addestrate nel Centro di Eccellenza C-IED di Roma e dislocate in 12 reggimenti Genio in tutto il Paese. Gli interventi di brillamento vengono fatti su segnalazione dei civili, ma una parte importante del lavoro è quello di bonifica preventiva. «Ogni volta che si decide di scavare per un’opera pubblica fino ai 5 metri di profondità, dalla Tav alla metro C di Roma, la legge ci obbliga a intervenire», racconta Lorenzo di Bella, addestratore degli operatori cmd. Per gli interventi più complessi con ordigni di grandi dimensioni in zone densamente popolate, il costo medio può arrivare anche a 20mila euro.
Ma come si fa esplodere una bomba? «Parliamo più di neutralizzazione che di esplosione, il nostro obiettivo principale è limitare gli eventuali danni», dice Di Bella. «In base al contesto pianifichiamo se distruggere nel sito la bomba o trasportarla in un altro luogo. Cambia tutto se stiamo nel centro di Roma o in una campagna sperduta». L’ordigno viene fatto esplodere in una buca scavata appositamente o dentro delle vasche fatte con agglomerati di fil di ferro e sacchi di iuta. Oppure si costruiscono delle sovrastrutture che funzionano come delle buche per contenere gli effetti dell’esplosione. Una volta bonificato, l’esercito controlla che tutta la zona sia priva di ordigni. «Certo, se una bomba si trova 50 metri in profondità, non possiamo saperlo, ma manderei mio figlio a giocare senza problemi nella zona bonificata dall’esercito» conclude di Bella.