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Marco Paolini: «Io sul palco dopo quello schianto, ora convivo con la colpa di essere sopravvissuto»
«Non pugnalarmi, sono già all’inferno». Marco Paolini mi vede e mi abbraccia. Non riesce a parlare, scosso dalla tosse. Ha gli occhi bagnati ed è solo sotto il sole, in piedi davanti al palco montato sulla vetta del Monte Tomba, alle pendici del Grappa, affacciato su Caporetto e sulla pianura veneta. Qui, cento anni fa, il confine divideva l’Italia dall’Austria. Assieme a Simone Cristicchi ha appena finito di provare Senza né vincitori né vinti, l’orazione per la pace scritta da Mario Rigoni Stern e da Francesco Niccolini, in scena questa sera e domani per ricordare il secolo trascorso «dall’inutile massacro, oltre 6 milioni di ragazzi, italiani, austriaci e tedeschi, mandati a morire durante la Prima Guerra Mondiale».«Adesso qualsiasi cosa che non sia il silenzio — dice — è inaccettabile. Lo devo ai famigliari di Alessandra Lighezzolo e lo devo a me stesso. Anche svegliarmi, dopo la tragedia, mi risulta eccessivo e volgare. È il momento del coraggio, sapevo che prima o poi nella vita sarebbe capitato anche a me: il problema è che non so se ce l’ho, il coraggio».
«La tragedia» è di martedì 17 luglio pomeriggio. Rientrava da uno spettacolo, al volante della sua Volvo. A Verona, in autostrada, l’ennesima crisi di tosse, la testa che si abbassa un istante, gli occhi che si chiudono e lo schianto contro la Cinquecento che lo precedeva. Alessandra Lighezzolo, 53 anni a settembre, commerciante vicentina di Arzignano e mamma, a bordo della Fiat guidata dall’amica Anna, non si è salvata. «Sono indagato — dice Paolini —, omicidio stradale: per me è un obbligo tacere, limitarmi a rispettare e a condividere il dolore altrui. Non voglio recitare la parte dell’affranto, se lo facessi ucciderei anche la mia dignità. Il silenzio è obbligatorio per capire se sono capace di andare avanti». Paolini, dopo l’incidente, ha cancellato «per motivi di salute» tutti gli impegni fino al 19 agosto. Tutti, «per ora» e a parte questa «preghiera» laica contro la violenza e contro la guerra, contro «l’eterno pretesto dei confini da chiudere a chi non conosciamo e ci fa paura». Dieci anni fa a recitare il testo di Rigoni Stern era stato Arnoldo Foà. Tra poche ore, assieme a lui e a Cristicchi, toccherà ai 45 cantori del coro Valcavasia e a quattro musicisti, insieme sotto le stelle lungo le linee delle trincee del 1918, sconvolte dalle bombe. «Al violino — dice Paolini — c’è Alaa Arshed, profugo siriano. Ieri sera ha chiesto se poteva accendere due candele sul palco, per i suoi morti, uccisi in Siria tre giorni fa. Dalla guerra non impariamo mai niente. Si è inginocchiato in silenzio: i coristi sono tornati su e si sono messi a cantare per lui». Chiede di non «virgolettare i molti pensieri» sulla «fine della speranza e su alcune certezze» scambiati a pranzo, nella casa degli alpini eretta sotto la vetta: un’amatriciana e le canzoni eseguite solo per lui, un altro uomo con l’irreparabile colpa di essere sopravvissuto ad un evento fatale e definitivo che lo supera.
Per «coraggio e disperazione» accetta infine di «provare a esprimere ciò che sento e che ancora non capisco».
Perché il silenzio e lo stop all’attività artistica?
«Perché ho le responsabilità di un privilegiato. Sono un attore, la gente mi conosce e i giornali sono pronti a scrivere ciò che dico. Abusare di questo sarebbe già non rispettare il dolore della famiglia Lighezzolo. Adesso non ho qualcosa da offrire, più che il mio silenzio».
Però ha accettato di recitare qui, dieci giorni dopo l’incidente in cui ha causato la morte di una persona: qualcuno potrebbe equivocare?
«Non so, sono qui nel mio momento più difficile solo per onorare personalmente milioni di ragazzi europei mandati al macello un secolo fa. Non dirò nulla di me, di quanto mi è successo. Spero che tutti comprendano il prezzo che pago per rispettare l’impegno preso con tutte le persone coinvolte in questo momento di pubblico raccoglimento civile».
Concentrarsi su "Senza né vincitori né vinti" può aiutarla a non pensare?
«Non è questo il punto. Il fatto è che io non sono già più io. Sono come i ragazzi morti in guerra qui sul Monte Tomba: hanno ricevuto un ordine, hanno ubbidito e sono morti. Pure a me all’improvviso il destino ha recapitato un irrifiutabile invito spietato: non cerco pietà, ma nemmeno per la mia tragedia riesco a trovare un senso alternativo alla crudeltà fredda del fato».
Ha ricostruito gli attimi precedenti allo schianto?
«Non voglio dire nemmeno una parola su un fatto che colpisce tante persone. Ho questa tosse maledetta da mesi, non passa, mi tormenta. Tossisco e adesso penso che ogni colpo sia come una fucilata».
Non crede che il suo silenzio, il suo ritiro, o questo colloquio con Repubblica, possano essere interpretati come una fuga, come la rinuncia ad assumersi la sue responsabilità morali, delegando ai giudici il dovere delle riposte?
«Interrompere la mia normalità significa dire che so profondamente cosa è successo e che nulla sarà più come prima. Sono un papà, purtroppo non posso mollare. Oggi e domani non recito solo per chi è caduto in guerra un secolo fa. Sono qui per testimoniare che l’Europa che qualcuno vuole liquidare è stata costruita con il sangue degli innocenti. Così mantengo una parola, provo a resistere, poi si vedrà. Ma chiedere scusa in pubblico sarebbe davvero indecente, per chi soffre e anche per me».
In due ore trascorse insieme Marco Paolini non ha mai sorriso, ha interrotto più volte le sue parole, come assente, spingendo gli occhi lontano. Ha continuato a tossire e a pigiare con un dito il tabacco nella sua piccola pipa. Mi ha congedato con un abbraccio, ripetendomi la preghiera iniziale: «Sono vulnerabile, già all’inferno, non pugnalarmi».
Ha rifiutato un passaggio in auto. È sceso dal Monte Tomba al paese di Cavaso a piedi: lo zainetto in spalla, da solo e in silenzio, giù dai tornanti della mulattiera percorsa da altri dimenticati che, senza alcuna colpa, non ci sono più.