28 luglio 2018
Due ritratti di Fabrizio Salini, nuovo ad della Rai
Mario Ajello per Il Messaggero
«Ora non è il momento di parlare ma di mettersi a studiare a fondo la situazione e le potenzialità di questa grandissima azienda». Non è tipo da proclami Fabrizio Salini, scelto come nuovo direttore generale della Rai. È uno che, al tempo del cosiddetto populismo, sembra rappresentare l’opposto. Cauto, diplomatico, senza grilli per la testa e non è nemmeno un grillino. Anzi è il classico tipo, senza appartenenza politica, alieno dal Palazzo, che viene consigliato dalle società di cacciatori di teste. Anche se, naturalmente, senza il benestare indiretto della Casaleggio Associati – con cui non ha mai collaborato – la scelta non sarebbe caduta su di lui.
Un manager che viene dalla televisione – ex dirigente Fox e direttore di La7, ora direttore generale della società di Simona Ercolani, quella che ha curato qualche Leopolda e perciò a torto Salini qualcuno lo ritiene renzista – e che è considerato uno specialista nell’invenzione di canali. Antonio Campo dall’Orto lo voleva infatti alla guida di Rai2. E un po’ il simbolo della tv non generalista Salini, e da questo punto di vista il suo sbarco a Viale Mazzini è una rivoluzione. A La7 ha dovuto gestire un territorio governato da viceré – Floris, la Gruber, Minoli – e adesso in Rai dovrà esprimere tutte la sua capacità diplomatica per mediare tra gruppi di potere e tra star, come Fazio e Vespa, e per non subire troppo la morsa della politica abituata prima, e neo-abituata ora, a imporre i propri protetti nei tiggì. Questo il primo scoglio che Salini, un post-ragazzo di 51 anni, appassionato di calcio ma anche di canoa e super-tifoso dell’Inter. Nei salotti che contano, non ci va. Alle cene degli amici, nessuno appartenente al Palazzo. E sul suo telefonino fino a poche settimane fa probabilmente non c’era il numero di alcun politico, partecipa spesso. C’è chi dice che il suo allontanamento da La7 abbia influito la sua lontananza dalla politica. Cairo naturalmente aveva bisogno di interlocuzione con i politici e lui non poteva garantirgliela abbastanza. Ora il paradosso è che un tipo così deve guidare la tv su cui la neo-politica ha prontamente messo le mani.
GLOCAL
E comunque, ecco Salini nel D-Day (a proposito, parla tre lingue ed è cresciuto televisivamente in mondi internazionali): «Il mio compito sarà quello di valorizzare tutte le enormi risorse creative che ha la Rai. Per offrire un prodotto che rispecchi l’eccellenza italiana, con contenuti diversificati, ampi e ricchi di simboli». Parole che i giallo-verdi non possono che apprezzare. E anche queste: «La Rai comunque non è un’isola. Le relazioni internazionali, così come la valorizzazione delle produzioni locali, sono parte essenziale della sua missione». Il tipo è così, non parla tanto ma è una persona gioviale e molto alla mano. E se Foa è divisivo e ideologicamente marcato, Salini è l’opposto. Romano, maturità al liceo Klepero, zona Marconi, laurea in Scienza politiche, è molto appassionato della tivvù anni 80. Mixer per intendersi. Avrà da direttore generale poteri che nessuno prima di lui ha mai avuto, ma il caso Campo dall’Orto dimostra quanto sia difficilissimo per tipi come loro – un po’ i due si somigliano, ma Salini è più pragmatico e meno impolitico di CDO – salvare l’osso del collo tra le braccia di Mamma Rai che naturalmente lo aspetta, anche per stritolarlo.
Carlo Tecce per il Fatto Quotidiano
Fabrizio Salini è un uomo impolitico, taciturno e riservato. Con un paio di anni di ritardo – per l’ex ad Antonio Campo Dall’Orto era un direttore ideale di Rai2 o Rai4, per svolte giovanili – entra in Viale Mazzini per occupare l’ufficio più pregiato del fantozziano settimo piano, dove s’annida il potere e da sempre ristagnano la politica, le leggende e i pettegolezzi. L’amministratore delegato Rai – da oggi il romano classe ’67 di fede interista Salini – ha la stanza più grossa, circondato da gente deferente e però scafata. Ora tocca a “Fabri”, che da vent’anni costruisce programmi, organizza aziende straniere e insegue il pubblico più ricercato (fu l’inventore di Fox Retro e riesumò I Jefferson), dimostrare a chi l’ha nominato e pure a se stesso che in Viale Mazzini non esiste un buco nero che inghiotte la reputazione e la creatività.
Salini ha veleggiato sereno verso l’assemblea degli azionisti Rai, candidato principale dei Cinque Stelle da almeno un paio di settimane (data di una cena con Luigi Di Maio), finché la Lega – per pura tattica – non gli ha imputato il conflitto di interessi. Perché da gennaio, dopo mesi di pausa, prima era a La7, Salini è ad e socio al cinque per cento di Standbyme (quote cedute ieri), l’azienda di produzione di Simona Ercolani, consulente a Palazzo Chigi del governo renziano, regista di una Leopolda e stratega mediatica del referendum fallito.
Dopo la laurea in Scienze politiche, Salini è per sette anni vicepresidente dei canali di intrattenimento di Fox International e lavora al lancio di Fox Life, Fox Crime e il già citato Fox Retro. Poi salta dai cugini di Sky Italia – ugualmente gruppo di Rupert Murdoch – per gestire l’area Cinema e Sky Uno, la rete più generalista della multinazionale a pagamento. A Sky Italia è un breve transito, neanche un anno, e poi fa un ottimo affare con la vendita di Giallo e di Focus – di Switchover Media – al colosso Discovery Italia. Rientra a Fox col grado più alto di ad, una dozzina di mesi e Urbano Cairo lo chiama per dirigere La7. In quel momento, Campo Dall’Orto lo contatta per un posto in Rai, ma Salini rifiuta perché ha un accordo formale con il patron del Torino. Collaborare con Cairo non è semplice: delega poco o quasi niente, e un giorno acquista un difensore per il Torino, un altro ristruttura il quotidiano spagnolo El Mundo, un altro taglia i buoni taxi di Rcs e un altro ancora, per non estenuare il lettore, ordina la trasmissione che può strappare pubblico di Mediaset o di Viale Mazzini che va oltre l’informazione.
Come accaduto per Eccezionale veramente. Salini ha resistito un anno e mezzo con Cairo: una stagione, un palinsesto. Non c’era livore, e forse neanche passione. Ma in un anno e mezzo, tempo modesto, non ha litigato con i volti più noti di La7. “Fabrizio non lo conosco granché”, il rituale giro di telefonate su Salini è infruttuoso. Non parla spesso e, quando parla, è assai sintetico. A differenza del presidente iperattivo sui social Marcello Foa, Salini ha un profilo su Twitter bloccato. Come uscire di casa e coprirsi con la muta: gli utenti possono leggere “Fabri” soltanto se autorizzati. Il Salini-pensiero si ferma a una replica piccata a chi contestava la lunghezza dei talk show di La7: “I nostri durano più di tre ore perché abbiamo tanta pubblicità e perché così si ottimizzano i costi di produzione”.
Il talk show eterno, che inizia con la legge di Bilancio e finisce con la cicoria ripassata in padella, è il rifugio degli editori e la condanna degli autori: con il programma che macina dopo la mezzanotte è scomparsa la seconda serata, dieci o vent’anni fa – la preistoria della televisione – fucina di talenti e laboratorio degli esperimenti. In Viale Mazzini, contrappasso di Salini, gli introiti pubblicitari diminuiscono: un po’ per la concorrenza spietata di Mediaset e un po’ per i telespettatori troppo anziani. E già: i tetti previsti dalla legge e l’equivoco di fondo tra offerta commerciale e servizio pubblico.
A parte La7 e l’abbondanza di informazione che ha saggiato e che dovrebbe rappresentare l’identità di Viale Mazzini, Salini ha una formazione editoriale con i canali tematici. Quelli che la Rai ha ignorato nell’ultimo mandato, ma adesso la Rai è generalista, ancora i primi tre tasti del telecomando. Salini è abituato a comprare produzioni esterne e in Viale Mazzini, al contrario, c’è bisogno di valorizzare i quattro centri di produzione. E aprire le botole, come ricorda un dirigente dell’epoca Campo Dall’Orto, dove il marcio s’è ormai stratificato e nessuno ci ha infilato mai le mani. Salini deve sporcarsi. Anche se, per vezzo, indossa sempre camicie bianche.