Era un ponte fra le generazioni, cresciute in epoche diverse e con diverse aspettative, sogni e ambizioni per la propria vita.
L’esistenza delle fanciulle del primo Novecento somigliava ancora a quella delle quattro sorelle March, quella delle adolescenti degli anni Ottanta per nulla. Eppure tutte avevano trovato, in questa o quella sorella — la bella Meg, la ribelle Jo, la dolce Beth, la capricciosa Amy — qualcosa di sé. E molte avevano riconosciuto nell’irresistibile sogno di libertà di Jo March la propria vocazione a crearsi un destino.
Oggi celebriamo il suo centocinquantesimo anniversario. Piccole donne apparve infatti per la prima volta nel 1868. Fu uno dei casi più clamorosi dell’editoria americana e poi mondiale, e cambiò per sempre la vita dell’autrice, Louisa May Alcott — allora trentaseienne. Alcott era figlia di un maestro idealista e filantropo, fondatore di una comune utopista ispirata al rifiuto del profitto, dello sfruttamento degli animali e degli schiavi, e basata sull’uguaglianza; era stata costretta a lavorare fin dall’adolescenza per sostenere madre, padre e sorelle (le Alcott erano quattro figlie, come le March), ridotti in miseria dagli esperimenti del maestro, e aveva trovato nella scrittura di bozzetti e racconti un’inattesa fonte di guadagno.
Alcott conosceva intellettuali del rango di Emerson, Thoreau e James, aveva alte ambizioni e avrebbe voluto distinguersi dalla «maledetta banda di scribacchine» che secondo Hawthorne stavano infestando e degradando la letteratura americana. Insomma, aspirava a essere riconosciuta come una scrittrice vera: appena tre anni prima si era cimentata nel romanzo per adulti. Senza fortuna: anzi, meritandosi l’accusa di immoralità perché vi affrontava temi scabrosi come l’adulterio e l’amore libero. I critici la invitarono con paternalismo a occuparsi, lei nubile e ignara di uomini, di argomenti domestici, che più si addicevano a una “piccola donna”. Cosa che Alcott fece, senza troppa convinzione.
Invece, quasi inconsapevolmente, creò la formula magica: il romanzo di formazione per ragazze che mancava — pedagogico, istruttivo, morale, ma scritto con leggerezza, realismo, brio, e con personaggi indelebili. Il romanzetto edificante senza pretese divenne il breviario di ogni adolescenza, e deflagrò come una bomba. E come accade a molti autori di successo, Alcott ne rimase suo malgrado prigioniera.
Il secondo volume, Piccole donne crescono, uscì già nel 1869. La brama del pubblico, dell’editore (e anche la propria) la costrinsero a trasformarlo, con Piccoli uomini (1871) e I ragazzi di Jo (1886), in una saga, anticipatrice della serialità oggi vincente nella narrazione globale.
Ma la popolarità del libro si riverberò su Alcott, e sulla sua vera famiglia. E la costrinse ad adeguarsi all’immagine che le lettrici si erano fatte dell’autrice, a identificarsi totalmente con la “madre” virtuosa dei suoi personaggi. A reprimere o nascondere le insofferenze e le audacie che invece la caratterizzavano.
Rileggendo oggi il capostipite, sono rimasta stupita dalla quantità di prediche e discorsi religiosi e morali che scandiscono e motivano ogni episodio (affidati per lo più alle lettere del padre assente delle ragazze e alla loro angelica madre). Avevo — abbiamo tutte — dimenticato le omelie sulla modestia della signora March, ma non la scena di Jo che sacrifica i capelli per pagare il viaggio alla madre, che invia di nascosto il proprio manoscritto agli editori, si comporta da maschiaccio e giura di non volersi mai sposare, nemmeno col ragazzo perfetto che la ama. Mi sono chiesta come mai non ne avessi serbato ricordo. Forse nelle edizioni di quarant’anni fa erano state tagliate? O forse la lettrice candida che sono stata scartò subito quelle parti, percependole come passaggi obbligati, memorizzando avidamente il resto: la storia di una famiglia di donne per niente conformi, nonostante la patina addomesticata. Le quattro sorelle sognano di diventare chi madre, chi scrittrice, pianista o pittrice, di sposarsi per amore e non per interesse, insomma di realizzarsi senza rinnegare se stesse. E perfino la signora March che aiuta gli immigrati e la bisbetica zia March non erano banali come poteva sembrare. Per questo ho — abbiamo — letto il seguito con qualche delusione, come se Alcott tradisse i sogni della protagonista (e forse i propri), ritrovando solo in qualche personaggio maschile minore gli slanci di Jo.
Il successo plurisecolare di Piccole donne racconta in realtà la tirannia della letteratura.
Alcott scriveva sotto pseudonimo romanzi di genere (gialli, gotici, melodrammi), e continuò a farlo anche dopo essere diventata la “madre” delle Piccole donne. Aveva attribuito al suo alter ego Jo una produzione di robaccia sensazionale che compiaceva i gusti del pubblico: rimproverata dall’ammirato maestro Baher, Jo bruciava gli inediti nel camino e vi rinunciava, per penitenza.
Invece Alcott non vi rinunciò.
Ma continuò a praticarla in segreto, come un piacere e un peccato, ordinando alla sua morte di bruciare ogni traccia di quell’altra sua — scandalosa — produzione.
Il segreto è stato svelato solo nel 1942. A posteriori, la doppia vita di Louise May Alcott illumina tutta la saga di Jo March di una luce più ambigua — quasi dovessimo leggere tra le righe anche ciò che non poteva essere scritto. Come la candida lettrice che sono stata, che siamo state tutte, ha sempre saputo. Diffidate dei seguiti e delle imitazioni. Le piccole donne nate libere non crescono mai.