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 2018  luglio 27 Venerdì calendario

Un mese nel caos Atac, ecco perché bruciano gli autobus di Roma

Capolinea della stazione Termini. L’autista tranquillizza la folla: «Salite, salite: devo solo controllare una cosa con il meccanico. Ma penso mi faccia ripartire». Poi sottolinea: «È l’85...». Per la smorfia quel numero indica le anime del purgatorio, che entrano sul bus in attesa del loro destino. Il guidatore ottiene il via libera; si siede, osserva le spie e parte. Alla prima curva un suono sinistro gela tutti. “Tatatatata!”.
Qualcuno alza gli occhi dal telefonino, altri scuotono la testa. Poco dopo scatta già la seconda mitragliata. Questa volta il tremito non si ferma. Una signora tira giù gli occhiali, fissa l’amica con aria impaurita. E senza dirsi nulla, decidono di scendere alla prima fermata.
Tutti a Roma temono che il purgatorio quotidiano del trasporto pubblico si trasformi in inferno. Il terrore ormai ha la forma degli autobus che bruciano da soli. Proprio lì, a cento metri da Palazzo Chigi, il numero 63, un Mercedes Citaro del 2005, è finito divorato da colonne di fiamme alte dieci metri. Venti roghi segnalati da inizio anno, di cui otto che hanno ridotto a una carcassa il bus; oltre quaranta nel 2017. Si incendiano i mezzi più vecchi, immatricolati quindici o diciassette anni fa, ma anche quelli più recenti. Un mistero che non trova risposte ufficiali.
Non c’è un unico “agente ustore” ma dopo quattro settimane di inchiesta, ascoltando ingegneri, manager e tecnici, la diagnosi appare ancora più sconvolgente. «Un problema serio è la mancanza del lavaggio sotto-cassa. Le ditte esterne che si occupano della pulizia non vengono pagate da tempo e limitano le attività» spiega un meccanico. Chiede di tacere il nome, una costante tra operai e autisti che temono le ritorsioni interne. Più i bus sono vecchi e più hanno bisogno di essere lavati per eliminare tracce di olio e invece «a volte c’è talmente tanta sporcizia che per andare a svitare un bullone dobbiamo utilizzare la lancia idro-pulitrice». A questo strato di sostanze infiammabili si aggiungono gli impianti elettrici deteriorati, i cavi di plastica ormai rinsecchita e sgretolata dal tempo. E poi le buche. A ogni fosso si allentano manicotti e guarnizioni, spesso già usurati, che infine cedono. Fanno colare la miscela di olio che inzuppa l’esterno del motore e il cocktail incendiario è pronto. La scintilla si trasforma in rogo, il bus diventa flambè.
La linea 64 fende il centro e riversa i turisti in piazza San Pietro. Lungo via Nazionale non c’è modo di aggrapparsi a un sostegno: i passeggeri sono un unico blocco umano che salta e sbanda. Per la smorfia, il 64 è il frac, come quello degli orchestrali. In quella moltitudine c’è un musicista, straniero e divertito, che con le mani tiene il ritmo delle voragini, quasi fosse uno spartito d’asfalto, mentre la custodia della sua viola barcolla. Il 64 è celebre però per altri maestri. Oggi i professionisti degli scippi si sincronizzano con le buche e trasformano il moto ondulatorio in metodo predatorio. All’apertura delle porte, un’anziana viene trascinata a terra. Le amiche urlano: «La stanno derubando, fermate quell’uomo!». Inutile. Nemmeno i controllori sono un problema: nessuno li teme, nessuno li vede. I dati ufficiali dell’Agenzia del trasporto del Comune di Roma (Atac) sostengono che sono stati sottoposti a verifica 2,4 milioni di passeggeri e solo il 6% era irregolare. Non è il trionfo dell’onestà. Statisticamente, quegli accertamenti sono irrilevanti rispetto al miliardo e 100 milioni di utenti. Non si spiegherebbe infatti come mai a parità di tariffe, l’Atm di Milano abbia quasi il doppio dei ricavi con metà dei passeggeri e un’evasione tra il 10 e il 15 per cento. Ma Roma vuole sconfiggere gli scrocconi con una sperimentazione itinerante: una sola porta d’accesso, sbarrata da un tornello. Cosa potrà accadere nei momenti di punta, resta un mistero. Tanto per ora di questi prototipi ne circola solo uno.
Il 64 arriva al capolinea: un’ora per quattro chilometri di tragitto, a piedi si faceva prima. Su questa tratta però le fermate sono curate, con tanto di display e tempi attesa. A cento metri da uno dei più importanti ospedali della Capitale, il Pertini, invece il tabellone che indica le linee è bianco. Una signora stringe le buste della spesa e, come fosse alla tombola, dispensa gentilmente indicazioni per tutti: «Se deve andare sulla Togliatti prenda il bus 61. Per il parco di Centocelle qui passa il 544». Davanti a un altro ospedale, il pediatrico Bambino Gesù, isolato sul Gianicolo, oggi i mezzi sono rari e le mamme sono costrette a spingere i passeggini con i bambini lungo la ripida salita.
A Roma, quattro milioni e mezzo di persone tra residenti, pendolari e turisti possono contare su poco meno di duemila bus. Quelli utilizzabili però sono sempre meno: il tasso di disponibilità è passato dall’83% del 2010 al 63% dello scorso anno. Ne funzionano sei su dieci. Nel 2017 Atac ha cancellato un milione e 300 mila corse. Il motivo? Per il 45% guasti e per un altro 40% “cause varie e non rilevate”. Una voce generica di non facile spiegazione. «Oggi è un giorno infrasettimanale» racconta un meccanico «dalle 5 alle 8 del mattino su 1300 vetture programmate per l’uscita circa 200 rimangono in deposito perché sono rotte. Dalle 8 alle 20 altre 300 vetture si fermano». A bordo del 310 il viaggio tra ambasciate e ministeri è una sauna: il termometro segna 33 gradi e l’aria condizionata non funziona. «Non è una novità», constata un impiegato sfilandosi la cravatta. Nel 2017 i romani hanno inviato oltre 17.800 reclami formali: il 310 si è classificato secondo nella hit delle proteste, nulla però è cambiato. Gradimento peggiore solo per il 708 che collega la periferia sud con l’Eur. Le segnalazioni dei cittadini parlano di orari sballati, bus che non si fermano e altri che cambiano percorso, mezzi così pieni da non riuscire a entrare.
L’Agenzia per la qualità dei servizi pubblici di Roma Capitale – che dipende proprio dal Comune – ha raccolto un giudizio lapidario: il 63% degli intervistati è insoddisfatto dei trasporti. Trovare l’aria condizionata è questione di fortuna. Lo spiega un meccanico: «Il 30 per cento delle vetture presenta problemi a questi impianti e i responsabili delle officine hanno l’input di sorvolare sulle segnalazioni degli autisti ritenute meno importanti». L’ordine è far marciare i mezzi, se poi si soffoca poco importa. Linda Meleo, assessore alla Mobilità, fa sapere però che i guasti si sono ridotti del 50% rispetto al 2017 e che è stata anche bandita una gara per la manutenzione straordinaria di 720 mezzi. Le officine per ora sono in stato d’assedio: «Lavoriamo con pochi ricambi perché i fornitori non hanno la garanzia di venire pagati e quei pochi che abbiamo sono spesso di scarsa qualità».
Nel deposito di Grottarossa ci sono decine di veicoli che «non cammineranno mai più». Sono stati “cannibalizzati”, smembrati per permettere agli altri di andare avanti. Così quelli in circolazione ricordano Frankenstein, mostri composti da parti di cadaveri. L’età media dei bus è di 11,6 anni e Roma ha sempre investito poco nella manutenzione. Nel 2015 Atac spendeva circa 16 milioni, l’Atm 172. Adesso la situazione è al collasso, schiacciata dai 1300 milioni di debito che gravano sulla municipalizzata capitolina.
La sindaca Virginia Raggi attende l’ammissione del concordato e intanto i fornitori non si fidano, vogliono essere pagati subito. «Lavoriamo a chiamata» spiega uno di loro. «Nella loro testa c’è il risparmio dei canoni mensili per l’assistenza, ma non capiscono che facendoci intervenire solo quando c’è una rottura, il costo alla fine è superiore». Atac cerca di spendere meno, ma finisce per abbattere i servizi. «Così si aumenta in maniera significativa la possibilità di incidenti» evidenzia Gino Bella docente di Ingegneria dell’Università di Tor Vergata. Senza una manutenzione pianificata, comprare altre vetture serve a poco: si logoreranno in fretta. La giunta Raggi ha promesso seicento bus nei prossimi tre anni, ma la gara è rimasta deserta, si procederà per trattativa privata. Il modo meno trasparente di gestire le cose.
Nell’attesa, è il trionfo del rabbercio. La stessa vettura rimandata al mattino al deposito per un problema e poi rimessa sulla strada, la ritrovi nel pomeriggio paralizzata davanti allo stadio Olimpico. « Nun so che c’ha, s’è rotto. Aspetto che vengano a pijarme ». L’autista in ostaggio passa la giornata in attesa dei soccorsi. Poco più in là, al capolinea di piazzale Clodio, davanti alla procura che indaga sugli incendi e su possibili sabotaggi, incontri il 504 incapace di ripartire. Alle 10 del mattino arriva un furgoncino, un paio d’ore di lavoro e se ne va. Ma a sera il bus è ancora lì.
Difficile stabilire quando la decadenza sia cominciata. C’è un pamphlet con una copertina esplicativa: un bus con il display della destinazione che recita “ Aho so’ guasto”. In “Trasportopoli. Cronache dall’inferno Atac” l’ex manager Pietro Spirito descrive dall’interno un sistema in tilt. Sintetizza anni di insuccessi pubblici e ruberie per la più grande partecipata dei trasporti d’Italia. Consulenze fittizie e assunzioni facili di parenti e cubiste che solo sotto Gianni Alemanno hanno portato l’azienda a una perdita da 91 a 319 milioni. Dal 2011 il costo totale per vettura/km ha iniziato a crescere fino a raggiungere un massimo di 8,1 euro nel 2014, per poi tornare a scendere a 7,1 euro nel 2015, e quindi nuovamente a salire.
Negli ultimi sei anni la produttività del personale Atac ha continuato a calare. I dipendenti sono oltre 11 mila, un’armata con una singolare divisione dei compiti: ogni cinque operativi c’è un amministrativo. A Milano il rapporto è uno ogni 25.
E così la notte è popolata dai “tiradritto”, autisti che saltano le fermate. All’una e trenta nel quartiere del Pigneto il notturno ignora i segnali dalla pensilina e fila via. «Anche a me è passato davanti senza fermarsi. In periferia va così…», conferma una signora sconsolata. «Io arrivo a piedi fino alla basilica di San Giovanni perché è più centrale e forse alla fine qualcuno mi vede». Sono quasi le 3. Tira fuori una bottiglia di plastica e aspetta Maria. Davanti alla statua di San Francesco si sbraccia: «Alleluia! Arriva l’N1». A bordo ti accoglie l’odore acre di sudore e ubriacature. Alcuni ragazzini, reduci dal sabato sera, cercano di aprire i finestrini, ma sono bloccati. Bisogna resistere in apnea fino a Termini, dove c’è l’unica speranza di trasporto pubblico nelle ore piccole. Maria indica la banchina, come davanti a un miraggio: «Ecco la fermata dell’N18!». Almeno cinquanta persone sono in piedi, pronte ad abbordarlo; altre siedono per il secondo assalto. Pare Dunkerque: o riesci a salire o non torni a casa. E tutti si lanciano verso le porte, forzati dell’ultima corsa. Rassegnati e disperati a vivere in una metropoli dove bisogna lottare per ogni servizio elementare.