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 2018  luglio 26 Giovedì calendario

Ascesa e caduta del condottiero, tradito dall’infernale falconetto

Lo stesero su un tavolaccio, a Mantova, nel Palazzo dei Gonzaga. Il medico era un ebreo di nome Abramo Ariè; chiese a dieci persone di tenerlo fermo. Lui disse che non ce n’era bisogno, il dolore non gli importava e comunque neanche in venti avrebbero potuto tenerlo, se avesse voluto dimenarsi. Gli amputarono la gamba, lui se la fece portare dopo la sutura. La osservò, cercò di mettersi in piedi. Disse che si sentiva bene, che sarebbe tornato a combattere. Era euforico. Chiese come andava la battaglia contro i lanzichenecchi, gli dissero che andava male. Si rabbuiò. Aveva i capelli scuri, il viso tozzo, la barba che non cresce sulle guance dei giovani. Cercava la fama, non l’utile. Precedeva i suoi soldati senza mai seguirli. Giovanni, si chiamava, ma non era vero; si chiamava Ludovico, ma quando era un bimbo aveva perso il padre, Giovanni de’ Medici detto il popolano, e sua madre aveva preso a chiamarlo con quel nome, come un incantesimo non riuscito. Già, sua madre, Caterina Sforza, la bastarda che scriveva trattati di erboristeria e ordinava battaglie, la signora di Imola e Forlì, dove lui era nato. Da lei, aveva preso quel cuore, la ferocia. No, non poteva finire così; anche con una gamba sola avrebbe difeso il Papa contro Carlo V. Verso sera, venne la stanchezza ma senza paura. Fu di notte che sentì i dolori. Il male non stava fermo alla gamba. Era risalito, lungo il tronco, si spandeva come il sangue. Fece testamento, disse al prete che non gli importava dell’anima, ma del suo buon nome; chiese di confessarsi davanti a tutti. Ai suoi comandò di continuare a combattere. Cominciò a delirare. Ricordò che era sempre stato solo; la madre prigioniera di Borgia, lui cresciuto in convento. Non pensò che sarebbe potuta andare diversamente, la sua vita. Ricordò gli uomini che aveva ucciso, il primo quando era un ragazzino e terrorizzava Firenze. Ricordò le battaglie, le vittorie, i francesi e i tedeschi. Ricordò papa Leone X, suo parente e protettore; la morte gli aveva dato dispiacere, e così aveva cambiato il colore delle insegne, da bianche e viola a nere, e quel lutto non l’aveva più smesso, e le sue bande erano diventate le Bande Nere. Ricordò le donne; mai aveva avuto tempo per l’amore. Riconobbe intorno a sé l’amico Aretino, i suoi compagni, chi non l’aveva tradito. Ricordò le poesie. Pensò a Cosimo, suo figlio, chissà dov’era. Si accorse della cancrena, la sua gamba che si gonfiava e ingrigiva, e dentro aveva tutte spine, e scosse. Pensò al fango dei fiumi, alla puzza dei cavalli, a quella degli uomini, a che poca cosa è la vita, come si disfa facilmente, tutta di colpo. Si domandò se Abramo non l’avesse tradito, avvelenato, perché Mantova stava con l’imperatore. Rivide la palla che gli veniva incontro, il falconetto dei lanziche-necchi, l’arnese infernale. Gli parve bello. Era stata quella diavoleria, a colpirlo. No, nessun pugnale avrebbe potuto sorprenderlo, nessuna spada, nessun uomo aveva potuto batterlo. Solo quell’arma nuova, che anche un codardo poteva usare. I suoi tempi erano finiti, la cavalleria era finita. Il dolore si fece folle, poi cambiò, divenne un oceano, una voce amica. Così, dunque, era la morte, dolce e terribile; aveva creduto di comandarla, di poterla ordinare, e si accorse che si era sbagliato. Chiese di essere spostato da lì e messo su un letto da campo. Era il 1526, aveva ventott’anni.