il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2018
Nell’anima di Manganelli la mente dell’Africa
Racconta Viola Papetti, amata amante di Giorgio Manganelli, che quando il marito di una sua conoscente lettrice di tarocchi (che atterrivano e divertivano lo scrittore) gli propose di seguirlo in una missione in Africa per conto della multinazionale che dirigeva insieme a ingegneri e ad altre figuri professionali in qualità di “relatore”, Manganelli inopinatamente accettò. Non era scontato, per uno scrittore dell’ombra abituato a passare i pomeriggi a leggere sul letto, con la matita in mano, sedentario e pingue, come era pingue Manganelli, di pasti consumati solo con persone sceltissime, preferibilmente in un profluvio di peperoncino (“Nella mia geografia gustativa occupa lo spazio del peyote”). L’Africa, quindi, nel 1970: giacché i tarocchi, interrogati su chi tra lui e un altro scrittore fosse il più adatto, dicevano sempre lui, Manganelli. Naturalmente, la multinazionale non usò né pubblicò mai le 36 schede scritte durante quel viaggio dentro e sopra a quella “allegoria allucinatoria”, il Continente-pachiderma, la “menzogna dell’Africa”.
Oggi Adelphi, che possiede il prezioso archivio dello scrittore, lo pubblica finalmente col titolo forse volutamente fuorviante di Viaggio in Africa, dal momento che il libercolo tutto è fuorché una relazione geografica o il resoconto di un safari. Onirico, esterrefatto, questo viaggio mentale dalla Tanzania all’Egitto è un laboratorio di scrittura, una delizia per gli occhi e una giostra per i neuroni, un trattatello concentratissimo di arguzia antropologica.
Nella scrittura variopinta e rigorosa di Manganelli emerge in rilievo, ruvida come la si potesse toccare, l’Africa psicologica, intesa sia come la mente del continente, sia come l’immaginario che essa produce in noi europei, o meglio che noi produciamo di essa a partire da scampoli di sapere scolastico, appunti coloniali, spezzoni di documentari, cartoline. Qui c’è l’Africa abusata e morbosa, quella “macchina esotica” libera dalla schiavitù degli orari e del consumismo vessatorio ma non da ogni altra schiavitù, a cui sempre noi l’abbiamo ridotta. Manganelli è un radar: sente la presenza di animali, fenicotteri, leoni; la registra sommariamente; ma al contrario di ogni paesaggista post-coloniale sa che quelle presenze sono geroglifici, geni del luogo, spiriti e segni inconsci della terra africana.
Se per i reportage dalle terre del Nord – Norvegia, Islanda, Svezia, Finlandia, Isole Fær Øer – raccolti da Adelphi ne L’isola Pianeta e altri settentrioni, Manganelli inventò una lingua metafisica e secca, una lingua delle desertità gelate, qui, alle prese col deserto vero, quello africano, inaugura una scrittura incandescente, cumulatoria, irrequieta come un miraggio. Se per raccontare il Polo Manganelli produceva un collasso nella lingua, una concentrazione minerale delle parole addosso alla carne compatta del ghiaccio e ai suoi sfrigolamenti indifferenti (registrava attonito la “grandezza decidua”, la “vocazione statica palladiana”, la “pace geometrica e taciturna” delle grandi forme polari), in Africa il suo linguaggio si scioglie e si abbandona alla “potenza ipnotica” di quella allucinazione. Ecco che “appaiono i laghi: la vegetazione esplode, il verde si incupisce, l’acqua si scioglie in palude, in terra fangosa e torbida.
Talora il lago è isolato, talora una serie di laghi ripete una serie di spenti vulcani. Sono le belle, calde, rigogliose terre della malaria”. Lì gli acri venti di ossigeno puro; qui il sole accanito, quasi animale. Manganelli entra in contatto con la pelle dell’Africa: l’Etiopia è “paese percorso da fantasiosi e nevrotici brividi di storia, ma disperatamente periferico e ignorato sobborgo del mondo mediterraneo”. Non stupisce che la multinazionale che ne aveva richiesto i servigi non pubblicherà mai i suoi scritti (né mai realizzerà la strada che avrebbe dovuto portare “il progresso” delle città europee tra “i villaggi leggeri e spaziati, gli abitacoli precari, da eremiti consuetudinari, pronti sempre ad un altrove, slegati da qualsiasi patria di luoghi ed oggetti”).
Le spaziosità emotive della terra d’Africa tolgono la terra sotto i piedi alla pazienza matematica di Manganelli; la mancanza di ossigeno che segna i corpi degli africani impolverati e nudi gli dà alla testa, e per incanto, per sortilegio (tutto africano), libera lo scrittore-atleta, abituato all’aria rarefatta del Nord, nella sua abilità di muovere immagini di un teatro primitivo, elementare, ai margini del limite, per tirarne fuori un suono che è quello esatto e minimo della solitudine.