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 2018  luglio 25 Mercoledì calendario

Mia nonna Huffy la storyteller di Hollywood

Nel racconto del nipote Michael rivive la figura di Harriet Frank sceneggiatrice per la Metro Goldwin Mayer negli anni d’oro di Los Angeles




Quasi tutte le famiglie che conosco fanno risalire l’essenza della propria identità a un mito fondativo. Come tramandato da mia zia Harriet Frank Junior, sceneggiatrice nonché depositaria delle narrazioni familiari, il mito della nostra famiglia ruotava attorno al modo in cui nel 1939 mia nonna paterna diede una svolta alla propria vita. Dopo la Grande Depressione a Portland, in Oregon, Huffy (in famiglia la chiamavano così, mentre per il resto del mondo era Harriet Frank Senior) caricò i due figli piccoli su una Nash del ’34 per partire alla volta di Hollywood.
Mentre io e i miei fratelli crescevamo, la zia non faceva altro che raccontarci (ancora e poi ancora) la storia dello slancio creativo che aveva spinto nostra nonna a chiedere un colloquio con Louis B. Mayer, all’epoca capo della Mgm. Ammaliato dall’intelligenza e dallo spirito critico di Huffy, Mayer la assunse all’istante — così almeno raccontava la zia — come story editor, mansione tipicamente femminile in quegli anni che consisteva nello scovare e selezionare contenuti da adattare per la pellicola.Tutto ciò che fa di noi i Formidabili Frank lo dobbiamo a Huffy, ripeteva la zia. Sono stati il suo coraggio e la sua audacia a renderci ciò che siamo oggi, dobbiamo esserle riconoscenti per ogni briciola. Da bambino mi bevevo questi discorsi come fiabe in cui i destini si capovolgevano per magia.
Mia nonna, già figlia di un’appassionata lettrice, frequentò il corso di Inglese alla Reed e, più tardi, a Berkeley — e dunque, poteva contare su qualcosa di più di un innato e straordinario fiuto narrativo. A Portland recensì libri per club femminili. Pubblicò racconti su alcune riviste. Per qualche tempo ebbe anche un programma radiofonico tutto suo. Accumulava un’esperienza dopo l’altra, così quando le riuscì di ottenere un colloquio con Mayer, le basi erano già state intelligentemente (per quanto forse a livello inconscio) gettate.
A dire il vero non fu affatto assunta all’istante: Mayer le diede prima un romanzo da leggere in prova.
S’intitolava Escape — Via di fuga — mia nonna lo divorò in una notte e la mattina seguente si ripresentò da Mayer pronta per raccontaglielo. (Anni dopo scrisse sul suo diario "Quel libro si rivelò la mia via di fuga"). Il successo del colloquio, e il fatto che non solo ottenne il lavoro ma la sua carriera durò quindici anni, sono certo stupefacenti — anche se non come intendeva mia zia.
Avevo circa undici anni quando mi imbarcai nell’impresa di raccogliere testimonianze sulla vita di Huffy. La sua biblioteca era rimasta intatta per alcuni anni dopo la sua morte, e un giorno curiosando tra i libri, ne scoprii alcuni con dediche: «A Harriet Frank, che è stata tanto generosa con me. I migliori auguri Paul Gallico».
Una ricerca successiva portò alla luce dediche di scrittori che, come Gallico, all’epoca ancora erano ancora considerati mitici: «Per Harriet Frank, con ammirazione e i più cari auguri Carl Sandburg 1944». «A Harriet Frank, la più bella Scheherazade che conosco. Con gratitudine dal suo grande fan e con la speranza che il libro le piaccia. James M.
Cain, Los Angeles Calif, 1946».
Mia nonna si era evidentemente guadagnata la riconoscenza di tutti questi autori — ma in che modo? Sapevo, certo, che leggeva e poi raccontava le loro storie per adattamenti cinematografici. Sapevo che talvolta Mayer le acquistava e talvolta no. Ma cosa faceva di preciso la nonna seduta nell’ufficio di Mayer? Da adulto, ho preso l’abitudine di controllare l’indice di tutti i libri sulla vecchia Hollywood che trovo nei negozi dell’usato e nelle biblioteche. Un giorno tra le pagine di un libro di Norman Zierold intitolato The Moguls (1969), mi sono imbattuto in questa frase: «Anche Harriet Frank era un’attrice a tutti gli effetti. Recitava le sue storie davanti a Mayer, con una lampada puntata sul viso per sottolineare la lacrima solitaria che le scendeva lungo la guancia. Quasi sempre la lacrima in questione, che Harriet produceva con prodigiosa abilità, convinceva Mayer ad acquistare i diritti».
Tutto a un tratto la nonna era lì, davanti a me, in un modo che non avevo mai considerato. Una sceneggiatrice, proprio come la zia; ma anche un’attrice capace di sfruttare al meglio, o così sembrava, il proprio talento. La lampada, la lacrima: che stile…che calcolo?
Nel 1991 Katharine Hepburn pubblicò un memoir, Io, in cui si trova un altro racconto di Huffy al lavoro: «Io volevo a tutti i costi fare Il lutto si addice ad Elettra con la Garbo e la regia di George Cukor», scrive Hepburn. «Ma con Mayer non riuscimmo a spuntarla. Ci stette a sentire fino in fondo, si fece raccontare il testo dalla signora Frank. Prima, l’idea che lei raccontasse le storie mi faceva ridere, ma sbagliavo. Era eccezionale. Quando raccontò Il lutto si addice ad Elettra rimasi incantata ad ascoltarla».
Una donna in carne e ossa, una celebrità senza alcun legame con la nonna e perciò non interessata a idealizzarla, aveva detto la sua, offrendomi una prospettiva della vita professionale di mia nonna. E non una qualsiasi. Avete idea di che cosa può significare riassumere in modo avvincente quel dramma verboso, tra i più ostici di O’Neill? (Io no di certo.) La nonna non aveva solo affrontato in campo aperto Il lutto si addice ad Elettra; ci si era cimentata in un autentico corpo a corpo.
L’aveva messo in scena, catturando l’attenzione di tutti, eppure alla fine — anche con la Hepburn e la Garbo dalla sua — non ce l’aveva fatta. Ecco, finalmente, qualcosa da prendere come esempio di vita: si tenta, si fallisce e il giorno dopo si torna alla scrivania pronti a ricominciare. È di questo che le vite (così come i film) si nutrono — e con questa grinta si scrivono i libri. Meglio la grinta del mito, se devo scegliere.
(Traduzione di Benedetta Gallo)