Corriere della Sera, 25 luglio 2018
Marchionne raccontato da un suo storico consulente, Stefano Aversa
«Un manager sempre focalizzato sul suo obiettivo, spietato nelle ristrutturazioni, duro coi suoi. Eppure Marchionne la sua vita tutta dedicata al business l’ha riempita – ne voglio parlare al presente – soprattutto di sensibilità umane: un uomo con un profondo interesse per le persone intorno a lui. Determinazione assoluta, certo. Avendo sempre ben presente il valore dei soldi generati dalle sue azioni. Ma il suo vero interesse sono sempre state le persone. Il suo intelletto emotivo lo ha speso per capire come erano fatti uomini e donne intorno a lui e quelli coi quali negoziava: cercava sempre sincerità, gente simpatica, coi suoi valori, possibilmente giovane. Meglio degli anziani la cui esperienza gli sembrava spesso sconfinare nella prosopopea».
L’avventura umana e professionale di Sergio Marchionne è per molti ancora un enigma: il gestore di processi di ristrutturazione industriale radicali, condotti con determinazione brutale che parlava come un umanista. L’uomo che ha accumulato ricchezze immense senza mai un giorno di vacanza per godersele. Chi l’ha conosciuto bene come Stefano Aversa, per anni suo consulente mentre in altri periodi ha rappresentato Case automobilistiche sue concorrenti (come la General Motors nella trattativa, mai andata in porto, per la cessione della Opel), prova a dare una chiave di lettura per sciogliere i misteri dell’uomo delle «scommesse impossibili».
«Anche quando la sua audacia sembrava sconfinare nella follia come nel tentativo di salvare Chrysler» racconta Aversa, «Marchionne si basava sul bagaglio di esperienze accumulato in un’altra missione temeraria, il salvataggio della Fiat. Ma anche per me» confessa il general manager di Alix Partners, «rimane qualche enigma al quale non trovo una spiegazione: Marchionne ha sempre avuto l’ossessione della squadra, credeva negli uomini, sceglieva solo quelli che superavano i test più severi. Parlava di continuo dell’importanza del team. Eppure ha sempre accentrato in modo altrettanto ossessivo decisioni e cariche. È una cosa che non ho mai capito, il suo limite. Amava la squadra, ma le impediva di crescere accentrando il potere».
La fama di un rullo compressore. Deve essere stato difficile negoziare con lui.
«Non facile, certo, ma lui discute sempre e, se riconosce che hai un punto valido, accetta il confronto alla pari, anche se dissente e alla fine resta del suo parere. Io l’ho conosciuto nel 2004 quando per la mia società di turnaround, Alix Partners, la Fiat, allora bisognosa di ristrutturazioni profonde, era un grande cliente. Cominciammo col lancio della 500: pronta ma con un piano commerciale da inventare. Scelse, col nostro pieno sostegno, soluzioni creative e spregiudicate. Pubblicità mai viste prima: provocatorie, ironiche ma anche filosofiche».
I momenti più difficili?
«La trattativa con General Motors, quando Marchionne voleva prendere l’Opel. Io allora rappresentavo la Casa americana. La cessione della divisione tedesca aveva senso industriale, ma GM fu irremovibile. Forse pesava ancora la ferita dell’operazione put quando Marchionne, arrivato da poco in una Fiat con le casse vuote, riuscì a ottenere un indennizzo di oltre due miliardi di euro per il disimpegno del gigante di Detroit dal Lingotto. Forse il irritò anche il modo in cui lui usò le pressioni politiche rivolgendosi direttamente ad Angela Merkel».
Però la politica è stata un suo punto di forza, da Obama a Trump.
«È vero. È stato pragmatico, bipartisan, mai ideologico. Non ha mai amato i salotti buoni, ma li ha frequentati quando ha capito che poteva essere utile all’azienda. A Obama, poi, ha tolto un’enorme castagna dal fuoco: il fallimento di un grande gruppo industriale. Anche Trump ha incassato l’aumento della produzione Chrysler in Michigan, ma con lui Marchionne ha trovato anche un’intesa più personale, fatta di sensibilità comuni: due personaggi che non amano i negoziati multilaterali, abituati a risolvere le questioni in un faccia a faccia».