La Stampa, 24 luglio 2018
Calcutta sale gli scalini: «Prima mi divertivo adesso sto imparando»
«C’è uno scalino da fare, prima o poi. Non lo puoi ignorare», dice Edoardo D’Erme, vero nome di Calcutta. Dopo tanti chilometri in autostrada e tre dischi (Forse, Mainstream e Evergreen, uscito a maggio) il cantautore in due anni è passato dai pub allo stadio Francioni di Latina, casa sua, sabato scorso, e lunedì 6 agosto sarà all’Arena di Verona, già esaurita. A testimoniare che quello scalino in realtà Calcutta l’ha già fatto, è il denso tour nei palazzetti annunciato sul maxischermo del Francioni: 19 gennaio 2019 a Padova, 21 gennaio a Milano, 23 gennaio a Bologna, 25 gennaio al Palaflorio di Bari, 26 gennaio a Napoli, 6 febbraio a Roma e 9 febbraio ad Acireale. Il tutto, sempre accompagnato dalla sua band, a cui per l’occasione si sono aggiunti il cantautore Giorgio Poi alla chitarra, alle tastiere Francesco Bellani, producer ed ex membro de I Cani, insieme al maestro Daniele Di Gregorio, storico percussionista di Paolo Conte, e a quattro coriste.
Com’è cambiato il suo modo di preparare un concerto?
«Quando ho iniziato a fare questo mestiere, in testa avevo solo la parte creativa. Non avevo la capacità di capire i momenti di un live. Adesso, un po’ per l’esperienza che ho fatto, un po’ perché volevo farlo, mi sono ritrovato a pensare alla sostanza del suonare dal vivo. La differenza principale coi club è che ora sento la necessità di mettere su uno show che sia qualcosa in più della sola musica, anche se per me il live andrebbe bene anche senza niente. Ci sono contenuti video, lavori fatti da amici. Ecco, l’ho concepito come uno spazio in affitto a miei amici».
Suonare dal vivo è la croce o la delizia del suo mestiere?
«Non c’è una regola. È la parte in cui lotto di più con me stesso per tenermi a bada, gestire i pensieri, le ansie, lo stress. Prima andavo su un palco e facevo il mio. Tipo: suono perché piace alla gente, devo divertirmi insieme a loro, ma faccio solo quello che mi va. Adesso, portare quella attitudine in uno stadio o arena sarebbe fuori luogo. Fra una data e l’altra ho molto più tempo per pensare. Sono uno che va in ansia facilmente, quindi è un lavoro che mi servirà anche per altri ambiti della vita. Però mi sento molto bene, sono più consapevole».
Si sente cresciuto come cantautore?
«Sento che sto crescendo. È un periodo florido anche a livello di scrittura, ho imparato tanto. Ai tempi del primo disco non mi sentivo musicista, ma come uno che aveva capacità medie in quel campo e che aveva voglia di scrivere canzoni. Adesso, come quelli che arrivano tardi a scuola, mi ritrovo a dover recuperare, nonostante abbia quasi 30 anni. Sono molto autocritico, penso sempre di non impegnarmi abbastanza. Però, credo di essere sulla strada giusta: mi sento più professionista. Anche per quanto riguarda il canto. Prima ero sciatto e insicuro nel controllare la voce».
Sui media passa per l’artista schivo che odia la fama.
«Ho avuto la fortuna di fare questo mestiere prima di impararlo. Gli intervistatori a volte si aspettano da me un entusiasmo che purtroppo non ho, quindi è nata quest’idea di me che odio l’essere diventato famoso. È qualcosa a cui mi sono dovuto abituare e che sicuramente mi attrae di meno rispetto al resto, però è solo un lato di questo mestiere. A Quelli che il calcio, in Rai, ho abbandonato lo studio perché non avevo granché da dire. Era domenica, non c’era l’atmosfera giusta. Ci ho scritto un pezzo dell’album, Rai».
Il suo nuovo album, «Evergreen», sembra un disco Anni 60, ma oggi le mode vanno verso l’elettronica.
«Gli anni 60 hanno stilemi precisi, ridondanti, io li ho seguiti ma con un suono moderno. Ho sempre pensato che la musica di quegli anni fosse più pura, la voce più chiara, che fossero la massima espressione della canzone pulita. Avevo un parco canzoni che aveva queste caratteristiche: ho cercato di metterci quella pulizia, quella raffinatezza».
Crede che uno dei suoi pregi sia l’aver sviluppato una lingua tutta sua?
«Lo considero un punto di forza. Anche a livello di stile è caratterizzante. Non so spiegare, forse neanche lo voglio sapere, non vorrei finire a cercare di copiare quello che ero».
Un pensiero sul futuro.
«Non ne so niente, tempo che esce quest’articolo sul giornale e magari sarò già stato dimenticato, magari no. Mi fa felice che le canzoni che ho scritto, per qualche altro anno, qualcuno le ricorderà. Se non altro un po’ di Siae arriva». E ride.