La Stampa, 24 luglio 2018
Traviate e rigoletti, i teatri d’opera sono diventati populisti
Per timore di risultare impopolari, i teatri d’opera italiani sono diventati populisti. Con eccezioni encomiabili ma rare, le stagioni prossime venture sono più noiose e prevedibili di una crisi di governo o del festival di Sanremo: Traviate e Butterfly, Rigoletti e Barbieri come se piovessero, e mi raccomando nel modo più tradizionale e scontato possibile, ché poi il melomane-medio non capisce, le sale si svuotano e partono le accuse di snobismo contro i soliti radical chic (questo è il guaio vero di tutti i populismi, compresi quelli ridicoli come in Italia: che in realtà non hanno alcuna fiducia nella «gggente» a nome della quale pretendono di parlare, e che in realtà disprezzano molto più della kasta con uso di mondo e di congiuntivo). Il panorama, più o meno, è questo, con punte di grottesco come al Regio di Torino, che l’attuale dirigenza pentastellata si sta impegnando allo spasimo per trasformare in un teatro di provincia, e provincia particolarmente provinciale.
Poi uno fa un giretto nella piccola bellissima Macerata e ha la conferma che anche all’opera si può essere popolari senza diventare populisti. Anzi, si possono prendere gli spettatori per il cervello e non per un’altra e meno nobile parte della loro anatomia. Lo Sferisterio è un meraviglioso protostadio costruito per il «giuoco del pallone» cantato da Leopardi, dove si fa lirica all’aperto. Ovvio che si debbano scegliere dei titoli pop, che infatti quest’anno sono Il flauto magico, L’elisir d’amore e La traviata. Però il Flauto è stato affidato a Graham Vick, che ci ha infilato tipo coro greco cento comuni cittadini fra indigeni e immigrati (a Macerata, poi), dandogli, anzi ridandogli, perché Mozart così lo concepì, un forte valore politico. Così gli Iniziati kasteggiano chiusi nell’Eurotower della Bce, in un Apple Store e in San Pietro, finché l’umanesimo illuminista non li porterà a fraternizzare con i migranti e i precari, là fuori dalle transenne e dai cordoni di polizia, mentre il serpente che insegue un Tamino no global è una ruspa gialla, ogni riferimento al mezzo pesante più amato dall’attuale ministro dell’Interno è ovviamente voluto. Risultato, ovazioni e contestazioni allo Sferisterio e polemiche anche politiche fuori, segno che stavolta il teatro ha fatto bene il suo mestiere: discutere e far discutere.
Quanto al Donizetti «balneare» di Damiano Michieletto, finisce su una spiaggia della Riviera, con il ciarlatano Dulcamara che spaccia qualcosa di più stupefacente dell’elisir d’amore, nel segno di quella tradizione della commedia all’italiana che dietro le risate svela e rivela, cattiva o solo realista, la natura umana. Solo La traviata «degli specchi» risulta non solo vecchia (ha qualche lustro, in effetti) ma pure invecchiata nella sua mera piacevolezza visiva del tutto priva di teatro vero. Infatti, per inciso, sarà la grande «novità» della prossima stagione del Regio.Tornando però alle cose serie e dunque a Macerata, va detto che il pop non populista non solo alla fine piace, ma paga. Lo Sferisterio era gremito e il primo week-end di festival, tre opere in tre giorni, ha fatto il record di incassi. Morale: magari il popolo non è poi così scemo, e forse anche a lui le brioche piacciono più del pane secco.