Libero, 24 luglio 2018
Ritratto di John Elkann, il predestinato
Essere nominato futuro re, all’improvviso, da bambino (e in quest’epoca a 21 anni si è bambini) è uno choc. Uno choc non male, a dire la verità. Ah il potere, il denaro, il nome. Ascendere al soglio del nonno, l’Avvocato, il più tardi possibile, ovvio, alla sua lontana morte... Era il 1997. John Elkann aveva visto e vedeva tutti i grandi della terra ai piedi dell’Agnelli numero 1, e le donne, i motori, una notte a New York, l’alba a Parigi con la brioche servita al tavolino di Sartre con la Deneuve, sulla rive gauche. Ohi, ohi, muore troppo presto il vecchio sovrano, e se ne va proprio mentre il regno scricchiola, e i nemici lo assaltano da tutte le parti, per inglobarselo. Non è una proprio favola essere un giovane re, nel 2003-2004, a 28 anni, dalle parti del Lingotto. Non c’è da infilare la scarpetta a Cenerentola, ma John detto Jaki si accarezza il tenero collo prima che lo taglino. Così accade alle dinastie di monarchi. La gloria, infine ti staccano la testa. Pochi giorni fa in Russia si è celebrato, con amare processioni, lo sterminio dello zar e dei suoi figli, fucilati dai bolscevichi. Sarebbe toccata la stessa sorte, evitando il piombo, ma non l’umiliazione con linciaggio cartaceo e ira operaia anche all’imberbe Elkann? Ma certo, sicuro. Sei tenero? Ti mangio meglio. Le banche intendevano prendersi l’impero Fiat, tecnicamente fallito, a quel punto del declino imperiale. Offrendo un esilio ovviamente pieno di gettoni d’oro e cotillon. E infinito discredito, i soldi rubati dalla Fiat all’Italia, eccetera. Uno annega. Svende. Si salva. Compra un marchio di vini pregiati, un’isola con le foche, un paio di hotel di lusso, e campa benissimo facendo regate con un catamarano. Lui, il piccolo, lungo Principe in quel 2004 ha deciso di no. Ha deciso che la famiglia doveva «rigenerarsi e rigenerare l’azienda». Metterci i risparmi, per orgoglio e per destino del nome. Persino (incredibile a dirsi) provare a stringere un pochino la cinghia delle braghe bianche. Capeggiò la riunione della casata: convinse e vinse. Bisognava risorgere dalle ceneri. Più facile dirlo che riuscirci. Occorreva qualcosa, un’idea, un compagno di avventura. Così, John, mentre sulla Fiat scendeva la notte, si è ritrovato in mano una lucerna di gloria sfiorita, che illuminava fabbriche desolate e bilanci persino peggiori.
ROVELLI INTERIORI NASCOSTI
D’accordo: ereditare un trono traballante, ma pur sempre coi cuscini imbottiti di grana, ville, vigneti è sempre meglio che nascere poveri, non c’è bisogno di sprecare altre parole sul concetto. Ma l’apprendistato avrebbe scorticato un mulo. Invece Jaki ha tenuto cocciutamente, senza mostrare le vene del collo gonfie per lo sforzo, senza lamentarsi, dolcemente. Portandosi dentro un sacco di rovelli interiori ben nascosti. E ce l’ha fatta, eccome. Il Kombinat come si dice in russo della famiglia, parlando solo di azioni e aziende, è superiore ai 60 miliardi di dollari, decuplicato rispetto al suo insediamento all’apice della schiatta torinese. È come l’impero di Carlo di Spagna, su cui non tramonta mai il sole. Anche se ora vengono le prove di una maturità che lui avrebbe rimandato volentieri. Il congedo così rapinoso di Sergio Marchionne lo lancia in un’avventura sconosciuta. È gracile, gentile allo spasimo, quasi l’opposto dell’amatissimo fratello Lapo, famoso per la genialità svitata, mentre lui è avvitato, avvitatissimo; Lapo è spendaccione, Jaki spilorcio, diciamo pure avveduto, visto che adesso è potentissimo, e teniamo anche noi famiglia. Un bel curriculum. A ventuno anni invece di studiare economia ha preferito il Politecnico di Torino, perché «mi pareva più difficile», ha raccontato. Quindi su suggerimento nonnesco, dopo l’ingresso nello staff supremo, è andato a imparare in uno stabilimento di Birmingham come si montano i fari sulle Toyota, per rubare l’arte giapponese dell’organizzazione. Quindi al lavoro in una succursale di vendite auto in Francia. Dopo il 2004, deceduto zio Umberto, è vice presidente, quindi pochi anni dopo alla testa della cassaforte con il tesoro dei cento e più membri del gregge degli Agnelli, alcuni dei quali coi denti di lupo e la relativa fame di polpa. Insomma, oggi, deve prendere vento per forza un po’ in solitaria. Ma ha avuto grandi maestri, e ha già volato mica male fuori dal nido. Ora sarà più difficile. La solitudine del re. Di recente, nel febbraio scorso, ha partecipato a una di quelle trasmissioni educative che si fanno in America, allestita per formare giovani manager coraggiosi. Ho potuto rivederla (mastersofscale.com). Confessa e racconta molte cose di sé e del suo rapporto con chi gli ha insegnato tutto. Manifesta autentica venerazione per il nonno Gianni, e per il bis-bis nonno Giovanni. Cita le parole talismano che gli hanno fornito. Racconta anche del suo rapporto con Marchionne. È incredibile come l’intervista-ritratto confezionata da Vittorio Feltri risulti profetica. Allora, in quel 2006, non c’era ancora stata l’esplosione degli utili, il primo clamoroso bilancio che nel 2008 ha consentito di rischiare di diventare grandi nell’industria, acquisendo la Chrysler mentre le industrie automobilistiche sembravano rottami globali, invece che fuggire nella finanza o nella logistica.
LA LEZIONE DELLA STORIA
Si capisce sin da allora il personaggio: uno che ascolta, fa domande. Ora, dodici anni dopo, a quella tivù americana dice: «Le aziende che crescono sono quelle capaci di rivitalizzare se stesse». Fa osservazioni molto curiose, nel senso di una strana profondità. La azienda europea più antica è «una cantina in Germania, di proprietà familiare, è stata fondata nel medioevo, anno 862», ricorda. Non certo i 250mila di Fiat oggi. Perché invece la Fiat c’è e cresce? Egli osserva che le aziende avrebbero, senza una mente che allarga l’orizzonte, una logica opposta a quelle delle città. Mentre le città antiche crescono, proprio perché non si specializzano (le città minerarie muoiono, quelle basate su un porto per una rotta soggetta alla turbolenze geopolitiche, si sfasciano), al contrario le ditte durano se mantengono un primato di nicchia, accettando la minorità. Infatti le aziende più antiche, quelle che durano più di cento anni, sono quasi tutte piccole o piccolissime, il 90 per cento ha meno di 300 dipendenti. Dove nasce l’eccezione Fiat. Ecco l’idea di Marchionne che lui ha preso in consegna: imparare la legge fisica che presiede alla crescita delle grandi città, essere come grandi città. Non dissolversi e lasciarsi inglobare, ma accettare ogni giorno la sfida della novità, ancorandosi all’antico, avere più centri, più piazze. Ma dentro un piano che regoli senza ingabbiare. Io direi (Elkann non lo dice) come Milano. Lui di certo pensa però a New York, a Londra. Si esiste se piccoli e di proprietà familiare? No, con Marchionne-Elkann la logica è ribaltata. Azienda come una città multidimensionale. Fiat=ditta di famiglia, con un nucleo fondativo con il dna originario, però capace di fondare città non fabbrichette di nicchia. Insomma: essere la famiglia guida di una città. E lui il giovane paterfamilias della famiglia leader di questa entità multipla e coordinata, senza rigidezze. Morbidamente. Come sapeva essere Marchionne, durissimamente capace di essere flessibile.
EBRAISMO E CATTOLICESIMO
L’educazione a leader di John Elkann è stata un percorso di ascolto ma anche di decisioni sue. Ramo paterno: nonno rabbino capo di Parigi, papà Alain, scrittore, intellettuale, che divorzia presto da Margherita Agnelli. La quale tiene con sé nella nuova unione feconda di tanti altri figli, i primi due, Jaki e Lapo. Sono cattolici, di religione. Scuole dovunque, quattro lingue. Il nonno Gianni lo sceglie. A 21 anni, cda della Fiat. Qui stabilisce un parallelo con il nonno. Racconta Elkann: «Stranamente, era la stessa età in cui mio nonno era diventato direttore della Fiat, come aveva voluto suo nonno, il fondatore della Fiat. E abbiamo la stessa differenza di età. Quindi, hanno avuto 56 anni di differenza, e ho avuto 56 anni di differenza con mio nonno». In fondo ce n’è un altro di parallelismo. Come il nonno era stato svezzato dal grande Valletta, così il nipote Elkann da un duo formidabile: Gianluigi Gabetti, oggi 94enne, specie in sapienza finanziaria e sui modi di gestire i rapporti tra cugini e zii Agnelli; e Sergio Marchionne. Marchionne! Gli anni più tremendi e insieme straordinari sono quelli in cui nasce il sodalizio magico con quel signore dai valori antichi del padre carabiniere, esule dall’Istria, migrante in Canada, audace novatore, origine piccolo borghese; e questo tipo che ha sposato la principessa Lavinia Borromeo, della stirpe di San Carlo, così come il nonno aveva sposato Marella, dei principi Caracciolo. Umberto in un anno disperatissimo aveva cambiato quattro amministratori delegati. Le banche si preparavano a inghiottire persino con un certo schifo il boccone di una azienda marcia, che perdeva due milioni di euro al giorno. Infine l’ispirazione. Lui se ne attribuisce il merito (con Gabetti). Ha raccontato che gli era stato segnalato questo cinquantenne, che in Svizzera aveva “ribaltato” un’azienda della famiglia, portandola all’utile. Lo fa venire a Torino. Lo convince in una notte, «bevendo con lui molta grappa». Credo che ne berrà di grappa per tamponare la tristezza dell’addio di Sergio. Meglio del Martini, con tutto il rispetto, se proprio si deve bere, piangere e ricordare.