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 2018  luglio 24 Martedì calendario

Davy Pieters: «Vivere senza Internet? Potrei ma non voglio»

Con una mossa originale il settore Teatro della Biennale di Venezia diretta da Antonio Latella si intreccia quest’anno con il settore della danza e della performance. Così se in questi primi giorni, tra l’inaugurazione e le consegne dei Leoni (oro a Rezza-Mastrella e argento agli Anagoor), all’Arsenale gli spettatori assistono a eclettici sconfinamenti artistici, si intercettano anche interessanti scoperte come la trentenne Davy Pieters, di Amsterdam, esordi in una piccola scuola di Maastricht e ora molto impegnata a Rotterdam.
I suoi lavori, compresi i due che porta alla Biennale, sono nel mondo di Internet e nei social, ispirati ai video di YouTube e riguardano l’influenza dei media nella nostra percezione della realtà. How did I die (da venerdì al Teatro alle Tese di Venezia) è la ricostruzione di un omicidio. Una ragazza viene trovata morta in un bosco: come verrebbe vista su Internet? La pièce offre la possibilità di tornare indietro e rivedere la scena, scoprendo particolari in più, trasformando lo spettatore in un detective. «Le ultime ore della vittima sono ricostruite in sequenze dal vivo da attori proprio come in un video. C’è l’amica della ragazza che è dovuta partire, la spiegazione di come si recuperano le tracce di Dna — spiega l’autrice — Gioco con le convenzioni del cinema poliziesco, ma mi ha ispirata l’osservazione del dipartimento della polizia scientifica di Amsterdam e il modo in cui i media hanno trattato casi importanti come quello di Amanda Knox. Casi che rivelano il bisogno delle persone di inventare una narrativa che dia senso alle cose che non capiscono».
Quindi nello spettacolo è importante il lavoro dello spettatore davanti a quelle sequenze?
« How did I die è incentrato su come si costruisce la verità dalle immagini da cui siamo inondati, su come noi creiamo le storie sulla realtà specie quando c’è qualcosa che non controlliamo.
Questo bisogno di controllo, di narrazione, tuttavia, è in contrasto con ciò che la vita è realmente: caotica e incomprensibile. Ecco, il mio lavoro esplora il conflitto tra le nostre aspettative e la realtà».
C’entra anche la denuncia contro un femminicidio?
«Può essere interpretato così perché la vittima è una ragazza, ma io spero che la prospettiva dello spettatore cambi sempre nel corso della performance.
Vorrei che giocasse con la propria mente. E anche questo ha una rilevanza politica e sociale perché dice molto su di noi e su come ci relazioniamo al mondo attraverso i video».
Alla Biennale lei porta anche “The unpleasant surprise” dal 29 luglio, sull’effetto della marea di immagini violente che c’inonda su Internet. Ha lavorato su YouTube?
«Sì, sui notiziari tv e sui video, spesso brevi, che passano veloci sui social, e che finiscono per ossessionarci».
Lei è nativa digitale. Per la sua generazione la percezione del mondo passa solo attraverso i social media. Lei cosa ne pensa?
«Certo, l’informazione che abbiamo sul mondo proviene, per la mia generazione, ma non solo, quasi tutta da Internet, che è uno spazio libero dove ognuno può scegliere cosa e come mostrare un pezzo di realtà. Ma quelle immagini sono una prospettiva molto limitata, che possono creare ogni sorta di emozione.
Dunque è importante dire qualcosa su una parte così preponderante della nostra vita.
Internet è uno spazio libero, ma con cui è molto facile manipolare. È bene esserne consapevoli».
Ci si può difendere dalla manipolazione?
«La difesa è decostruire queste realtà virtuali così da guardarle in modo nuovo e diverso. Già dar loro corpo, come succede nei due spettacoli, rende lo spettatore più in contatto con le persone e meno con lo schermo».
Lei potrebbe vivere senza social?
«Internet, i social sono parte delle mie radici. Sì potrei vivere senza Internet, ma non credo che lo vorrei».