Il Messaggero, 24 luglio 2018
Il Flauto magico e le provocazioni all’opera. È giusto cambiare i grandi classici?
«Hanno chiamato pure dall’estero ma Graham Vick è in vacanza». Così risponde il Macerata Opera Festival all’indomani della inaugurazione della 54esima stagione lirica, il 20 luglio, con Il Flauto magico di Mozart diretto dal provocatorio regista inglese. «Un pugno nello stomaco», come da lui stesso promesso, che ha scatenato le polemiche del deputato del Carroccio Tullio Patassini e del responsabile Lega Marche senatore Paolo Arrigoni. Una regia alternativa, infarcita di trovate discutibili. Il drago, che impazza in un misterico Egitto nella prima scena, si trasforma in un’enorme ruspa gialla in un campo rom con Tamino, il moro, che giace inerme nel cassone pieno di denti aguzzi al posto di essere ingoiato delle fauci del mostro. Un coro che grida «razzista» a Sarastro il quale, nel secondo atto, si trasforma in un arringatore-guru alla Steve Jobs con tanto di mela Apple alle spalle.
La questione è dove finisce la contaminazione, benvenuta e necessaria nel mondo mass-mediatico, e dove comincia la dissacrazione, impertinente, triviale e assolutamente superflua anche nelle derive postmoderne. Posto che l’opera ha avuto sempre una forte relazione con la critica al potere e gli accadimenti politico-sociali come ha sottolineato la mostra Opera: Passion, Power and Politics allestita al Victoria & Albert Museum di Londra fino al febbraio 2018, passando dalla Salomé di Richard Strauss censurata dal Kaiser Guglielmo II si passa a L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi del 1642, che denuncia la corruzione della società veneziana, a Le nozze di Figaro di Mozart del 1786, satira del potere ordita attraverso i servi e la gente comune.
L’INTEGRITÀ
Non è questione di guerra fra tradizionalisti e modernisti, di opporre la scuola dei Visconti e degli Zeffirelli a quella avanguardista dei Vick e Michieletto, ma di coerenza testuale, del rischio di distruggere l’integrità dell’opera e dell’assenza di un filo conduttore. Che sembra essere una caratteristica delle attualizzazioni di Vick come nel controverso Mosè in Egitto presentato al Rossini Opera Festival di Pesaro nel 2011, ambientato nel Medio Oriente del conflitto israelo-palestinese.
La tensione al politically correct ammorba anche la Carmen del Maggio Musicale Fiorentino di quest’anno, per la regia di Leo Muscato, dove l’eroina di Bizet deve sovvertire il femminicidio di Don Josè trasformandosi in carnefice. Il veneziano Damiano Michieletto, enfant terrible della lirica, è stato salutato da una tormenta di fischi al Teatro alla Scala nel luglio del 2013 per il bicentenario verdiano a causa dell’insolito, e per molti supponente, Ballo in maschera trasformato nel party elettorale, pieno di donne facili in minigonna, indetto dal protagonista Riccardo, con una Ulrica diventata una bionda imbonitrice. Pure nel 2015 il Guglielmo Tell, diretto da Antonio Pappano, andato in scena al Covent Garden di Londra, trasposto dal medioevo a un Novecento confuso con uniformi austro-nazi, riferimenti alla guerra dei Balcani, è stato investito da una contestazione senza precedenti per la scena di stupro di gruppo in cui degenera la festa di jodel del terzo atto.
IL LINGUAGGIO
Michieletto oggi esprime fermamente la sua idea di trasposizione del dark side della psiche: «La musica parla un linguaggio universale e non quello vincolato dalle didascalie di un libretto. Non bisogna per forza mettere in scena personaggi eleganti. Anzi a me piacciono di più quelli sporchi e corrotti, e ambientando l’opera nel nostro tempo ho attribuito loro vizi e atteggiamenti contemporanei». Il suo Elisir d’amore, prodotto per la prima volta a Valencia nel 2011, è andato in scena allo Sferisterio il giorno successivo al Flauto magico con enorme successo e bis di Una furtiva lagrima nonostante fosse ambientato in uno stabilimento balneare tra palme, lettini, parei e materassini. Il legame tra opera lirica e critica sociale è dunque all’insegna della contaminazione, che però nasconde parecchi rischi. Stranamente è proprio da un emblema di questa contaminazione che viene il rilancio di uno sguardo più rispettoso dell’opera e del piacere estetico connesso alla sua rappresentazione.
Alfonso Signorini, direttore di Chi, con un diploma al pianoforte al Conservatorio, debutta venerdì 27 luglio con La Bohème al 64esimo Festival di Puccini a Torre del Lago, dopo il grande successo della Turandot nella precedente edizione. «Tutto dipende dalla sensibilità del regista e dalla funzione che si vuole dare alla rappresentazione dell’opera. Le due prospettive della resa artistica e della critica sociale a volte convergono, a volte divergono. Io ho uno sguardo diverso dalla scuola tedesca, più vicino a quello della tradizione italiana. Riconosco la contaminazione dei generi, ma il melodramma per continuare a vivere non ha bisogno di certe strumentalizzazioni. Trasmettere le emozioni è molto più complesso e faticoso. Ho visto a Bologna La Bohème di Vick. È più semplice se faccio morire Mimì nell’ultimo atto in un covo di eroinomani e Rodolfo la lascia lì come un rifiuto della società. Il regista è un servitore della musica, non impone la sua personalità. La scuola di Visconti e di Zeffirelli è una scuola di fedeltà e di eleganza. L’opera nasce come un genere di intrattenimento parallelo a quello del feuilleton: quando diventa uno strumento di critica politica si finisce per stravolgerla. Vedere una ruspa al posto del Drago a me non dice nulla. Preferisco una presa di posizione netta in un’intervista col proprio nome e non per conto di Mozart». Signorini ricorda che anche la sua esplorazione fedele produce risultati nuovi come per esempio «scoprire che Liù può suggerire la soluzione del secondo e terzo indovinello della Turandot perché Puccini stesso interpola i due temi musicali e rendere Mimì un personaggio femminile forte, moderno, affatto angelicato semplicemente ricordando la sua vita come è descritta nel libretto».
SORPRESE
Anche Beppe Menegatti si dice «molto sorpreso» dalla trovata di Vick. Al contrario di molti teorici della inculturazione giovanile, cita l’esempio controcorrente del nipote Giovanni che va a vedere la Sonnambula e Il pirata di Bellini tra Roma e Milano e poi domanda al nonno: Ma perché i registi si inventano certe cose?. Pur stimando il «grande uomo di teatro» che è Vick, Menegatti reclama il suo passato di assistente di Visconti per la famosa Traviata con Maria Callas o l’edizione di Mario e il mago di Thomas Mann, tuona contro «queste provocazioni paranoidi, questa rincorsa competitiva con le peggiori trasmissioni televisive, questa smania di fare notizia per cui si arriverebbe a uccidere il direttore d’orchestra in scena».