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 2018  luglio 24 Martedì calendario

«’68, noi c’eravamo»: il peso della retorica tra sogni e ideologie

Ancora il ’68, ancora la retorica su un anno divenuto esso stesso eponimo: il regista Bernardo Bertolucci, il giornalista Paolo Brogi, l’ex parlamentare Mario Capanna, l’ex pittore militante Gérard Fromanger, il regista Paolo Pietrangeli, il filosofo Toni Negri, e la scrittrice Lidia Ravera sono le voci chiamate a raccontare la loro partecipazioni a quel movimento.
«68, noi c’eravamo», il documentario di Massimiliano Giannantoni e Moreno Marinozzi, in maniera un po’ ingenua «cerca di capire cosa sia rimasto di quel movimento «insurrezionale» che ebbe portata globale e che dopo il suo passaggio ha lasciato in eredità una società profondamente mutata, nei costumi e nelle abitudini, ma anche nella politica» (Sky On Demand).
Che il 1968 sia stato il più grande sommovimento politico, sociale e culturale del dopoguerra non ci sono dubbi. 
Resta da capire, più sul piano antropologico che su quello squisitamente politico, se il ’68 sia stato l’inevitabile chiusura di un decennio ineguagliabile, straricco di fermenti o il tetro preambolo degli anni di piombo.
Su un tema così interessante, com’è possibile intervistare Capanna, che del ’68 ha fatto una professione, o Toni Negri, che ha radicalizzato fino all’estremo quel periodo, o Pietrangeli, dopo «Contessa» solo Maurizio Costanzo. 
O forse no, proprio queste interviste (Bertolucci li rivive da regista e Ravera da scrittrice) servono a farci capire in maniera inequivocabile che il ’68 è stato una pietra tombale. 
Gli anni 60, The Fab Sixties, sono stati un periodo decisivo di storia sociale attraverso l’accumulo di sensazioni, di film, di spot pubblicitari, di telegiornali e soprattutto di canzoni. 
Poi arriva il ’68, l’evocato e rievocato ’68, a far svanire il sogno. Con la sua pesantezza ideologica, è stato un punto d’arrivo, non di partenza.