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 2018  luglio 24 Martedì calendario

Il mistero dell’uomo solo nella foresta

Questa sì che è una storia! È vivo e a quanto pare sta benissimo l’«indio delle buche», riapparso dopo tanti anni in un prezioso video dell’ente governativo brasiliano che si occupa delle tribù amazzoniche scampate alle mostruose distruzioni subìte dalla foresta. Poco più che un pugno d’uomini e donne custodi di tradizioni millenarie, tecniche complesse e geniali, sbalorditive conoscenze botaniche. Ma l’«indio delle buche» ha una storia talmente incredibile, talmente ai limiti dell’umano, da trasformare la sua esistenza in qualcosa di molto simile a un simbolo poetico, che illumina e commuove senza lasciarsi mai decifrare pienamente dalla ragione. 
A metà degli anni Novanta, quando il dissennato sfruttamento agricolo del territorio procedeva a pieno ritmo, accompagnato da un genocidio di cui parlavano solo pochi attivisti coraggiosi, spesso a rischio della loro vita, una banda di sicari uccise tutta la tribù alla quale apparteneva il nostro eroe. Che ha continuato a vivere la sua vita completamente solo per ventidue anni, in un angolo ancora intatto di foresta dello Stato brasiliano di Rondônia. 
Se ne erano perse le tracce per molto tempo, si pensava che fosse morto di stenti, o magari di tristezza. E invece, eccolo qui, che abbatte tronchi di bambù con colpi assestati con energia e destrezza. L’unico indumento, un perizoma di fibre vegetali, esalta una condizione fisica che sembra eccellente. È uno splendido cinquantenne e a vederlo al lavoro si giurerebbe che gli spiriti della foresta lo tengano sotto la loro protezione, facilitandolo nei bisogni quotidiani e vegliando sul suo sonno. Coltiva il mais e la papaya, va a caccia con l’arco e le frecce. 
Il suo nome d’arte, per così dire, si deve all’abilità nello scavare buche. Trappole, rifugi contro le intemperie? Ho fatto qualche ricerca, ma non ne sono venuto a capo con certezza. E se è lecito fantasticare un po’ su una vita così inconcepibile per le nostre abitudini di pensiero e i nostri automatismi psicologici, non mi sento di escludere che, al di là delle loro funzioni pratiche, le buche piacciano in sé e per sé a quest’uomo, come a noi può piacere dipingere o scrivere una poesia. Una cosa è sicura: l’«indio delle buche» non ha mai cercato altra compagnia. Quello che la sorte gli ha tolto, non l’ha considerato sostituibile. E volente o nolente ha accettato di essere l’ultimo anello di una catena lunga quanto la storia del mondo. 
Più in là probabilmente non è possibile proseguire sulla strada dell’empatia, è difficile capire qualcosa delle persone che ci sono più vicine, figuriamoci di uno che vive così. Però non possiamo fare a meno di chiederci, osservando queste immagini straordinarie, in che misura queste condizioni di esistenza così eccezionali ed enigmatiche, senza nulla perdere della loro alterità, ci riguardino in modo profondo e vincolante. Fosse anche solo in un minimo frammento del subconscio, se ci pensiamo bene, l’«indio delle buche» è tutti noi, e se l’orizzonte ultimo della nostra solitudine ci rimane nascosto, non per questo è meno reale, non per questo possiamo negare che ci portiamo sulle spalle un carico di esperienza che col passare del tempo si fa sempre più unico e irripetibile e finirà con noi. C’è qualcosa di irrimediabile e commovente, nella nostra condizione, che fa di ogni singolo essere umano, anche il più confuso in una folla, l’ultimo dei Moicani, l’indio delle buche. Perché una vita non è mai esattamente quella di un altro, e quello che un individuo può testimoniare del mondo, non equivale a nessun’altra testimonianza. Su un vagone della metro all’ora di punta o nel folto della foresta amazzonica, sta proprio qui la nostra dignità e la nostra bellezza.