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 2018  luglio 23 Lunedì calendario

Gherardo Colombo: «La fine di Gardini aprì gli occhi di tutti sul sistema tangenti»

Dottor Gherardo Colombo, 25 anni fa è un quarto di secolo, ma sembra un’era geologica, visti i cambiamenti successivi. Il 23 luglio 1993 Raul Gardini, il Pirata, uno degli uomini più ricchi d’Europa, si spara e un titolo di giornale è "L’Enimont uccide ancora". Ricorda quella mattina?
«Ricordo, anche se si tratta di eventi così traumatici che non sempre la memoria li registra appieno. Il peso di tragedie simili in qualche misura ti induce alla rimozione. Raul Gardini aveva dormito a casa sua, in via Belgioioso, era libero ed era previsto per la mattina che Antonio Di Pietro lo interrogasse. Quando ci arriva la notizia del suicidio, ci troviamo tutti noi del pool Mani Pulite nell’ufficio o di Borrelli, o di D’Ambrosio, non ricordo. Erano passati pochi giorni da quando ero andato a San Vittore, in cella, dov’era stato trovato morto Gabriele Cagliari, la figura di riferimento dell’Eni. Per noi sarebbe già stato agli arresti domiciliari, era detenuto per un’altra inchiesta, e l’avevo interrogato più volte. Erano giorni davvero tragici e drammatici, ed anche preoccupanti: un paio di mesi prima era scoppiata una bomba a Firenze, il 27 luglio sarebbe esplosa l’autobomba di Cosa Nostra in via Palestro, cinque persone uccise sia nel primo che nel secondo attentato. Ero in questa stanza, quando ho sentito il fragore dell’esplosione».
Da casa sua a Porta Venezia a via Palestro ci saranno al massimo mille metri…
«Mi sono precipitato, ho incontrato lì D’Ambrosio e Borrelli, s’erano precipitati anche loro.
Nell’atmosfera irreale, vicino al muro crollato, alle ambulanze, ai corpi c’era tanta gente, che silenziosamente esprimeva solidarietà e sconforto. Mi sentivo vuoto, come quando, poco più di un anno prima, avevo appreso della morte di Giovanni Falcone. Avevo passato tutto il giorno in carcere, a interrogare il presidente dell’Ipab, accusato di varie corruzioni, e la sera, uscendo, un agente mi si avvicina e mi dice: "Ha sentito che cosa è successo?". Quella sera era prevista una cena a casa di amici, nessuno di noi riusciva a parlare, eravamo pietrificati. Lo stesso era accaduto una dozzina di anni prima, quando in una riunione improvvisamente apprendemmo la morte di uno di noi, Guido Galli, ucciso all’università dai terroristi di Prima linea. Si sentì, come fosse uno scoppio, un’imprecazione di D’Ambrosio, poi lo sconforto, come un precipitare nel buio…».
Il giorno della morte di Gardini, noi cronisti vediamo Di Pietro camminare a testa bassa e lei che dice: "Guardateli a vista, avete capito, a vista…". Dopo capimmo che si riferiva agli altri arrestati, a Carlo Sama, ilcognato di Gardini, o al finanziere Sergio Cusani.
«Recentemente Sergio Cusani ed io siamo stati invitati a parlare di Tangentopoli in una scuola, e Sergio ha ricordato che aveva delle difficoltà a sottrarsi alla vista degli agenti anche quando andava in bagno, gli dicevano: "Ci spiace, il dottor Colombo ha ordinato così".
Raggiunsero poi un compromesso, e Cusani ottenne un minimo di riservatezza».
E che cosa temevate?
«Temevamo che qualcun altro facesse lo stesso. Era insopportabile il senso di vuoto che questi eventi lasciavano. E ti veniva da pensare ai familiari, al loro dolore. Cercavi di prevenire. Io, nello stesso tempo, ero invaso dagli interrogativi sul perché di quei gesti».
Nell’obitorio di Lambrate si trovarono le due salme, di Cagliari per la cremazione e di Gardini per andare a Ravenna, una accanto all’altra. In quei giorni Giorgio Bocca scriveva: "Suonano le campane a morto per i ladri e i corrotti della prima Repubblica"…
«Era emerso con chiarezza il sistema della corruzione. Ovunque ti girassi, trovavi tangenti: per la metropolitana, gli autobus, le strade, i tram, la Malpensa. Quando l’anno prima m’ero occupato dell’Ipab, avevo scoperto che in quel consiglio d’amministrazione tutti, messi lì dai partiti, prendevano soldi. Erano esclusi solo quelli di Democrazia proletaria e del Movimento sociale, non so se per questioni morali o perché non contavano nulla. Ad alti livelli la corruzione era un vero e proprio sistema anche perché era connessa rigorosamente con il finanziamento illecito ai partiti; intendo dire che i soldi della corruzione finivano per buona parte nelle casse dei partiti. Sono state coinvolte nelle indagini tutte le imprese di primaria importanza e i vertici dei partiti. Quel che abbiamo scoperto è, o meglio era, sotto gli occhi di tutti».
Era in che senso?
«Oggi in tanti non ricordano molto, e in tanti non sono in grado di ricordare, perché non c’erano ancora e nessuno ha raccontato loro quel che avvenne; o meglio molti hanno scritto di quel che avvenne, ma chi ha la responsabilità di tramandare una memoria storica, anche nel contesto istituzionale, raramente lo fa. Del resto succede così un po’ per tutto, cambiano le generazioni e si perde il passato. Mi è capitato di parlare in licei in cui i ragazzi attribuiscono la strage di Piazza Fontana alle Brigate Rosse, oppure ignorano completamente la strage di Brescia a Piazza della Loggia. Non conoscono le compromissioni dei servizi segreti nei depistaggi nelle indagini sulle stragi, non sanno cosa sia stata la P2 e i suoi drammatici collegamenti internazionali».
Beh, abbiamo fatto un’inchiesta tra gli universitari di Milano, tra Statale e Cattolica era una risicata minoranza a conoscere la parola "Tangentopoli".
«Il che fa riflettere su quanto serva la conoscenza perché possa esistere la democrazia. Che non è soltanto forma ("una testa, un voto"), ma riconoscimento della pari dignità di qualunque essere umano. Dopo tredici anni di indagini e processi sulla corruzione — tanto è durata Mani Pulite — e dopo due anni come giudice in Cassazione, nel 2007 mi sono dimesso, perché sono convinto che se si vuol contribuire a far sì che le regole vengano osservate è necessario occuparsi di educazione. Bisogna andare nelle scuole per comprendere insieme il senso delle regole che, come le nostre, si basano sulla messa al bando della discriminazione, perché a ciascuno di noi — e quindi anche a lei e a me — siano garantite opportunità pari a quelle degli altri. Senso delle regole che, per tornare al tema della corruzione, dovrebbe indicare il modo di interpretare la funzione pubblica. Non per interesse individuale o di parte, ma per l’interesse di tutti».