Il Messaggero, 23 luglio 2018
Alessandra Ghisleri: «Si va in rete più che per avere notizie per cercare conferme alle proprie idee»
«Il vero problema del rapporto fra gli italiani e i social è che il 90% circa continua a cercare sulla rete la verità che vuole leggere. Troppo spesso i social vengono utilizzati per autoalimentare proprie convinzioni, il proprio credo. E questo meccanismo contiene una dose di pericolo paradossalmente non tanto o non solo sul piano di settori strategici, come quello dell’informazione e delle scelte democratiche, ma innanzitutto in comparti vitali come la salute e l’alimentazione». Non la manda a dire Alessandra Ghisleri, direttrice della società di ricerche Euromedia Research.
Dottoressa Ghisleri cosa vuol dire esattamente?
«Per lavoro abbiamo avuto a che fare con aziende farmaceutiche che ci hanno fatto testare l’uso effettivo di chi comprava i loro prodotti via internet. Ci siamo resi conto che praticamente nessuno ammette la possibilità di usare male le informazioni che pure riceve. È così si finisce per comprare o mangiare qualcosa per ottenere risultati miracolosi ma non capisce che così ci si fa male».
E perché?
«In molte persone scattano meccanismi atavici presenti nella psicologia umana ben prima dell’avvento dei social ma che con i social si moltiplicano: vuoi credere che quello che compri ti faccia bene o faccia al caso tuo. In campo medico questo può essere pericoloso perché senza il filtro di un medico o di un biologo o di un nutrizionista – i casi sono infiniti – puoi farti veramente male perché non conosci le controindicazioni».
C’è anche il tema dell’emulazione?
«Che resta forte. Specialmente fra gli adolescenti che sono lestissimi nello scegliersi come modello l’attrice o lo sportivo di moda e che poi rischiano di adottare standard insostenibili. Bisogna che i genitori siano veloci nell’intuire se i figli emulano comportamenti sballati. E tuttavia...».
Le ultime rilevazioni, però, dicono che gli italiani usano i social ma cominciano a fidarsi di meno.
«Cominciamo a separare e gestire meglio i canali dai quali ci informiamo anche se restano dei problemi molto seri sul tappeto».
E cioè?
«Prendiamo l’informazione. I social danno sostanzialmente un’informazione di base ma se poi vuoi approfondire davvero un argomento, capirlo, arricchire le tue conoscenze restano fondamentali gli articoli dei giornali e i libri. Ma anche questo non scioglie il nodo di fondo: chi assicura ad un singolo individuo come stanno veramente le cose? E questa molla fa ripartire il circolo vizioso di un possibile uso distorto dei social».
Lei si riferisce alle fake news?
«Le fake news ci sono sempre state. Il punto è che sui social molti cercano la conferma a verità o presunte verità che ognuno si è già fatto nella propria testa».
Con effetti devastanti.
«Appunto. Bisogna tornare a filtrare a tutti i livelli. E tuttavia...»
Tuttavia?
«Non possiamo non dire che internet offre un accesso democratico alle informazioni più svariate. Il tema è avere i filtri per decodificare il bene che si riceve. Resto sempre molto colpita nelle nostre ricerche da come le diverse competenze e le diverse condizioni di vita formino filtri molto diversi: uno stesso prodotto può essere vissuto in modo molto diverso se vivi al Nord o al Sud, se hai figli o meno, se conosci le lingue o no, se sei stato all’estero o no».
Quanto incide l’uso sbagliato o superficiale dei social nella formazione dell’opinione pubblica e del dibattito politico?
«Diciamo che internet rappresenta una modalità di approccio alla realtà diversa da quelle del passato. I giornali offrono una lettura che, senza che essi lo vogliano, coincide con altri approcci e quindi vengono vissuti da una parte di opinione pubblica come facenti parte del mondo precedente. Il punto vero, inestricabile, è che al di là dei canali di informazione che ognuno di noi predilige chi lo sa come stanno davvero le cose?».