Corriere della Sera, 23 luglio 2018
L’Africa disperata di Manganelli
Nel lontano 1970, un alto dirigente di Bonifica, una società multinazionale che costruiva strade e ponti nel mondo, ebbe l’idea di progettare una litoranea che, partendo dal Cairo, percorresse la costa orientale africana fino a Dar es Saalam. Prima del progetto vero e proprio, pensò di inviare in quelle regioni un ristretto drappello di «supervisori», tra i quali dovevano esserci anche una fotografa e uno scrittore che, con sguardo non professionale, osservassero quella lunga striscia di terra bagnata dall’Oceano Indiano e, una volta tornati, facessero le loro libere considerazioni. Lo scrittore prescelto era Giorgio Manganelli. La strada non si realizzò. Ma, quello che adesso pubblica Adelphi col titolo Viaggio in Africa (con una postfazione di Viola Papetti) è il racconto, come può essere un racconto di Manganelli, di quel viaggio durato tre mesi.
Il viaggiatore europeo, o occidentale, reduce da un viaggio africano, ma non nell’Africa mediterranea, bensì in quella assai più aspra e solitaria al di sotto del Sahara – questa, la prima considerazione di Manganelli sbarcato a Roma – rivede il luogo dal quale è partito, vale a dire la sua città (laddove «città» è chiaramente sinonimo di un intero mondo) con uno sguardo completamente diverso. Lascia una realtà sconosciuta, nella quale è entrato con il timore, anche la paura, la diffidenza, le inevitabili difficoltà che si incontrano nei luoghi sconosciuti (ma in Africa queste difficoltà possono essere talvolta invalicabili), ripiomba nel cuore della realtà nella quale è nato e vissuto, e di colpo si accorge che quelli che fino a pochi mesi prima gli sembravano dei «segni» chiari e distinti, i veicoli di messaggi se vogliamo ossessivi e purtuttavia certi, i simboli di un passato indiscutibile, sono diventati segni che prendono un’altra strada, si confondono, si perdono. Al punto che persino il «monumento dei monumenti» della civiltà occidentale, e cioè il Partenone di Atene (Manganelli lo visitò nell’ultima sosta del suo viaggio di ritorno), può diventare incomprensibile, o strano, o incongruo: quantomeno il contrario dell’armonia classica; e invece mostrarsi quale gesto di «violenza irragionevole nei confronti della stessa demonicità greca».
Detto questo, è pure vero che «quell’Africa», per chi ci mette piede la prima volta, è fonte di sorprese e veri e propri sconvolgimenti che, dalla «città occidentale», è impossibile concepire in senso assoluto. Se «i grandi occhi dei negri, divertiti e straordinariamente mondi di rancore, seguono lo spettacolo eccitante dei motori che passano» sulle strade asfaltate diritte, dure e razionali, accanto alle quali corrono le piste irrazionali, contorte e vissute, pronte a scomparire dopo una settimana di piogge, e allo stesso modo osservano in alto gli aerei, incapaci di relazionare queste distanze della modernità con le distanze effettive che intercorrono fra le proprie capanne sperdute, fra villaggio e villaggio, fra costa e centro, ebbene, è altrettanto vero che gli occhi dei bianchi, per nulla divertiti, semmai colmi di colpa e sgomento, da quelle stesse distanze, insieme infime e immense, non conciliabili, sono sconvolti.
Lo spazio, la bellezza, la vita solitaria (che è diversa dalla solitudine) sono i grandi temi che con la sua straordinaria penna Manganelli rende concreti e vivi: gli africani non conoscono la bellezza, sono soli, il loro spazio immenso è una immensa prigione. E hanno un disperato bisogno di futuro. Bisogno che, come con precocissima intuizione – siamo nel 1970 – scrive Manganelli, si fa tanto più forte e impellente, quanto più la povertà è disperata e senza vie d’uscita, quanto più è feroce il contrasto fra l’essere poveri e le immagini dei luoghi nei quali si può essere meno poveri, o addirittura ricchi.
Nessuno di noi può immaginare la povertà africana se non la tocca. In quella stessa epoca, avevo un amico che per motivi di lavoro passava lunghi mesi nell’Africa subsahariana. Quando tornava, gli chiedevo: «Ma che c’è in Africa?», e lui mi rispondeva sempre: «Niente». Non capivo. Davvero. Poi, venti anni più tardi, attorno al 1990, ebbi l’occasione di girare un documentario in Kenya, sulle missioni della Consolata di Torino. Percorsi, in jeep, circa duemila chilometri, da una missione all’altra, attraversando il vuoto, fino alle rive del lago Turkana, e, attorno alle missioni, nei villaggi solitari che descrive Manganelli, vidi finalmente cos’era il «niente» di cui parlava il mio amico. Il niente era niente, nel senso che gli esseri umani che vivevano in quei luoghi non avevano letteralmente niente. Gli uomini più fortunati bevevano un bicchiere di tè al giorno (motivo per quale, col loro bastone, giacevano tutto il giorno a terra, affidando alle donne il trasporto di quattro legni per il fuoco); i bambini fortunati accolti dalle missioni avevano come pasto giornaliero un pugno di fagioli; se le suore del Cottolengo non riuscivano ad arrivare in tempo a prenderseli, i bambini nati deformi venivano eliminati dagli stessi genitori, e diventavano niente; alcuni villaggi erano vuoti, cioè «niente», perché l’Aids, dal primo all’ultimo dei suoi abitanti, aveva sterminato tutti. Adesso, i più «fortunati», abbandonano i villaggi dove si beve una tazza di tè al giorno, le periferie delle città che sono lazzaretti o trincee di guerra, e consegnano i loro risparmi a dei signori che li portano a morire nel deserto o in mare.