Corriere della Sera, 23 luglio 2018
L’open space peggiora il lavoro dice uno studio di Harvard
«Caffè?», scrive via e-mail la collega verso le 4 del pomeriggio. «Ma ti sembra normale questa cosa?», critica un paio d’ore dopo. Sempre via e-mail. E sempre lei. «Domani lavori?», chiede a fine giornata. Stessa modalità. Stessa mittente. Che non è lontana, anzi siede di fronte, a poco più di un metro di distanza in questo open space, e potrebbe parlare invece di scrivere.
Se la vostra casella di posta elettronica e il vostro WhatsApp negli ultimi tempi hanno registrato un’impennata dei messaggi dei vicini di scrivania – anche per le cose più banali come appunto andare a prendere qualcosa al bar o alle macchinette – non stupitevi: la colpa, in parte o tutta, sembra sia della configurazione interna del luogo di lavoro.
Pensati per favorire la comunicazione diretta, la collaborazione e quindi la produttività, gli open space spingerebbero in realtà i dipendenti ad agire nel modo diametralmente opposto: a conversare molto di meno (-73%) e a scriversi allo stesso tempo più messaggi ed e-mail (+67%).
A sostenerlo è uno studio di due docenti dell’Università di Harvard che hanno monitorato le attività di alcuni dipendenti attraverso dispositivi elettronici e microfoni. Una ricerca che aggiunge anche come gli open space siano nemici della concentrazione. «Quando l’individuo non riesce a focalizzarsi tende a comunicare meno e a sbagliare di più», sostengono gli autori nel lavoro pubblicato sulla rivista specializzata Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences e andando così a confermare gli altri studi sul tema degli ultimi anni.
«I risultati non mi sorprendono», dice Andrea Castiello D’Antonio, consulente di management e psicologo delle organizzazioni. «Uno spazio che un tempo era privato ora diventa penetrabile fisicamente e acusticamente portando le persone a innescare meccanismi di opposizione, a irritarsi maggiormente». Gli uffici senza più pareti «costringono alla promiscuità sociale. Per questo oggi negli open space compaiono tramezzi più alti: i dipendenti hanno bisogno di interagire in modo privato».
Chi, invece, è stupito per i risultati dello studio è Paolo Citterio, presidente nazionale di Gidp/Hrda, l’associazione che riunisce i direttori e i dirigenti delle risorse umane. «Gli open space fatti bene sono una meraviglia», replica. «Soltanto in un ambiente aperto i colleghi riescono a vedersi, a confrontarsi, a costruire relazioni. La vecchia idea di azienda, quella con stanze separate disposte in lunghi corridoi, porta gli individui a non incrociarsi. Un conto è sentirsi al telefono, un altro scambiarsi le informazioni faccia a faccia».
«Attenti a dare tutta la colpa all’open space», interviene Francesco Scullica, professore associato al Dipartimento di Design del Politecnico di Milano ed esperto di design degli spazi di lavoro. «Lo studio conferma che non esiste un modello unico». «L’open space auspicabile è quello che permette un giusto equilibrio tra privacy ed esigenze di condivisione – suggerisce —. Servono ambienti con differenti livelli di privacy, soluzioni flessibili con mini-sale riunioni, “gusci” per telefonare. In un open space rigido subentra il senso di alienazione che porta a mandare le e-mail o a mettere le cuffie per isolarsi». Cuffie che la collega, si spera, non inizi a utilizzare dopo questo articolo. Ma che continui a comunicare magari, un po’ di più, a voce.